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giovedì 19 gennaio 2012

CAPITOLO QUARTO



Capitolo quarto.



    Chiusi gli occhi. In un'interminabile istante giungemmo a Gamilok. L'unica cosa certa era che stavamo dentro al tempio. Dì la fuori, non sapevamo nulla; né di cosa avremmo trovato né di cosa avremmo affrontato. Serrai i pugni, osservando per un attimo il volto serio di Ismeria. Sapevo che lei pensava la stessa cosa. Si guardò addosso, toccandosi l'addome con la mano libera dalla stretta della spada.
    << Siamo scampati a un grande pericolo, Caos... >> mugolò, a bassa voce, fissandomi immediatamente dopo, accecandomi quasi con i suoi occhi viola e luminosi.
    Non sapevo che dire, perché in cuor mio sapevo tutto era appena iniziato, che forse non saremmo arrivati alla fine. Che Zholown sarebbe rimasta così, caotica.
     Senza che me ne accorgessi, spinto da una forza interna, le sorrisi lievemente e le sfiorai la testa, cercando di darle conforto. Non si discostò scontrosa dal mio gesto, ma rimase ferma, accigliandomi lievemente.
    Dopo qualche istante mi accorsi che l'ambiente era salubre, pieno di colonnati con intarsi floreali che inneggiavano l'ambiente della cittadina. I tanti colori mi fecero socchiudere le palpebre, soprattutto a causa del reverbero proveniente dai vetri sparsi sul tetto del luogo.
     Non emanando neppure più un fiato, di comune accordo iniziammo a procedere, per cercare la terza pietra mancante. Appoggiai le mani sulle ante della grande porta, spinsi e rimasi accecato. Vidi buio, poi, appena riuscii a spalancare gli occhi, facendo scudo con una mano, riuscii a vedere ciò che avevo intorno, non con stupore, ma con fare certosino. Oramai non mi sarei stupito più di nulla, dopo quello che avevo visto e affrontato.
    La luminosità del Cielo si arrestò, dopo poco. Passo dopo passo, camminando tenendo in mano l'elsa, esaminai il luogo. Gamilok era semidistrutta, devastata e stroncata. Ismeria mi stava accanto, fissando la parte opposta alla mia. C'era una specie di viale, scosceso e nascosto da piante grandi e intricate. Parevano emulare gli alberi, poco distanti. La loro corteccia era nascosta da una lieve patina di cenere. Ma ciò che mi catturò di più furono le varie abitazioni diverse da tutto quello che avevo visto. No labirinti, non sfere, ma strutture che si elevavano, per quanto possibile, nella selva. Tra i rami riuscivo a intravedere dei grandi muri pieni di colori, mischiati con allacciamenti argentati e scuri, che disegnavano motivi imprecisi, dato che erano quasi fusi. Il peso di quelle strutture, collassate a terra, avevano spostato gli alberi e molte radici erano fuori dalla terra grigia e sporca.
    L’unico rumore che sentivo era il movimento dell’acqua, chissà dove, e questo non ci dava molta tranquillità. Non mi fidavo di nulla, così Ismeria.
    << Imuset >> emise senza fiato, stanca e afflitta. Si riferiva alla statua del dio, che stava a tantissima distanza da noi, in una zona prospiciente, su una collina rialzata. Dal tono che lei aveva usato, pareva quasi che lo conoscesse.
    << Isme… >> la chiamai, confuso, aggrottando le sopracciglia. Lei rispose allo stesso modo, indugiando con lo sguardo. Il silenzio intorno a noi diventò tagliante. Portò davanti a se stessa la spada. La fece luccicare con l’effetto verdognolo e brillante del Cielo. Soltanto in quel momento mi resi conto che non c’era il Sole: Seikat.
   Incominciavamo a sentire la stanchezza. Già per il fatto che non avevo dormito la notte precedente, sapere che avrei dovuto combattere ancora contro l’ignoto mi faceva sentire maggior peso sulle spalle. Invisibile, ma immenso. Però non potevo arrendermi, non potevo lasciarmi abbandonare così.
   La mia immobilità portò ad Ismeria a venirmi accanto. Mi osservò, appoggiando una mano sulla spalla.
     <<Caos, stai bene? >> domandò, con tono agitato.
    << Sì, non preoccuparti… >> mentii, mordendomi lievemente un labbro. Sapevo che non ero capace di mentire, ma parve che con lei non funzionò. Infatti il suo sguardo ferito mi colpì dritto dentro il petto, facendomi ancor più male di quelle nemiche che usarono di tutto per poterci annientare.
     << Ci conviene muoverci… >> farfugliò, frettolosamente, portandosi avanti a me.
     Annuii, seguendola.
    << Credo che forse sarebbe meglio separarci, così faremo prima. >> dissi, procedendo lentamente.
    << Separarci?! >> rispose, acida, fissandomi intensamente. << Sei un folle irresponsabile! >>
    Il suo tono arguito mi lasciò attonito.
    Improvvisamente una spinta, proveniente dal suolo, l’aveva fatta fiondare verso di me. Così bruscamente che quasi rimbalzò. L’afferrai prontamente. La sorressi, cingendole le braccia.
     << Cosa pensi di fare?!>> mi chiese con tono accusatorio, scansandosi da me. Si divincolò, fissandomi atrocemente. Arretrò, con passo lento.
     Rimanemmo in un tagliente silenzio. Non mi andava di controbattere con lei. Volevo usare tutte le mie forze in quello che sicuramente ci attendeva, forse dietro l’angolo.
                Con passo lento, deciso e quasi solenne, apparentemente involontario mosso forse dal mio subconscio o dall'inerzia, mi mossi lentamente nel bosco.
    Ogni passo, sul suolo fangoso, strideva insieme al suono dei piccoli frammenti di vetro, sparsi qui e là.  Essi stridevano spinosi sotto i miei piedi con suoni lunghi e quasi taglienti. Digrignai i denti, d’istinto, cercando di esorcizzare quello strano rumore.
    Entrando lentamente nel bosco, tranciai ciò che mi era d’intralcio con dei fendenti. La fuliggine sparsa sulle cortecce mi dava fastidio. Spesso si depositava su di noi, opacizzando la nostra armatura. Anche lei pareva molto infastidita, oserei dire addirittura schizzinosa.
    Intanto sentivo scuotere gli scudi, che al minimo contatto con le piante, si muovevano selvaggiamente. Questo portò a Ismeria a fissarli, con curiosità. Lei quel potere già l’aveva visto, per poco non ci stava rimettendo le braccia, eppure li osservò come se fosse la prima volta che posava lo sguardo su di loro. Probabilmente in vita sua non aveva mai visto una cosa del genere. Mi incuriosiva il suo modo di pensare, il suo modo di vedere le cose. Eravamo così diversi, eppure così uguali alle persone che noi amavamo. Questo mi metteva a disagio, non tanto per la somiglianza, ma per il rapporto che si era creato tra di noi. Non la riconoscevo osservando i suoi occhi viola e capelli rossi, e probabilmente lei non riconosceva Leonos guardando i miei lobi celesti e capelli bianchi.  Continuai a farmi strada, tergiversando tra me e me.
     << Stai attento! >> esclamò l’elfa, scaraventando via i miei pensieri, spingendomi indietro facendo pressione sul mio petto. La fissai allucinato, non riuscendo a capire a cos’era dovuta quella frase così alta. Poi abbassai lo sguardo. Una specie di tela si era andata ad impattare sui piedi, imprigionandomeli.
     Mi abbassai, con un unico gesto, andando a toccare con curiosità quei strani fili collosi, friabili ed elastici.
     << Cosa pensi che sia? >> mi chiese, accovacciandosi accanto a me.
    << Presumo che non prometta niente di buono…  >> mugolai, istintivamente, provocando in Isme un sospiro soffocato. Percepivo in lei tensione, confermata dal ruota mento della sua spada, che strinse ancora di più accanto a lei. Era pronta a combattere.
     << Dobbiamo trovare subito la pietra, prima che…. >> disse, in maniera frettolosa, non riuscendo a finire la frase. Si alzò, portandosi in avanti, catturata da una strana luminescenza. Io la seguii, pronto al contrattacco. Anch’io, come lei, rimasi sgomentato su ciò che vidi. 




    Specchiati dalla luminescenza del Cielo, trovai gli elfi di Gamilok rinchiusi nel cristallo. Oramai c’ero abituato, sapevo che anche loro erano stati segregati in quella prigione diafana, ma ciò che catturò la nostra attenzione fu altro:il terrore nei loro volti. Osservai per un attimo i loro bei abiti, soprattutto la femmina con una specie di armatura fatta di piante e metallo. Le piante adornavano la sua fronte, le spalle, il seno e le gambe, serrate dal metallo scuro, simile alla terra, lavorato in maniera elaborato. L’elfo aveva un elmo, prezioso e appuntito, il petto ignudo e una specie di tunica al ventre, stretto da una cinta preziosa che sembrava un gioiello. Stivali ai piedi. Lui era di spalle, con le gambe lievemente flette. Ma seppur sembrassero vestiti per uno sposalizio, parevano fuggire da qualcosa. Soprattutto m’incuriosirono le strutture vicine a loro, con dei strani volti, impassibili e terrificanti. Poi, sparsa da tutte le parti, quei fili che poco prima mi avevano interrotto il cammino.
     << E’ strano… >> disse con voce atonica Ismeria, fissandoli con curiosità.
      Non le risposi, annuendo debolmente, cercando con lo sguardo alcuni dei miei.
     Ci fu un suono sordo. Un fruscio. Un movimento brusco. Gli strani visi spalancarono la bocca, spaventati, spalancando gli occhi.
     Mi girai in direzione del pericolo e serrai la spada, affiancandomi a Ismeria che si era nuovamente accesa. 
    << Carne fresca >> sentii in un sibilo impercettibile.    
    Indietreggiai con disgusto, parando con il mio corpo Ismeria che osservò la nemica con ira. Le sue fiamme mi riscaldarono la pelle, quasi mi bruciarono, per quanto erano forti.
     Era un mostro con orbite diverse, tra le quali alcune erano sopra la fronte. Aveva sembianze elfiche, ma con un corpo ripugnante a più zampe che partiva dal bacino. Scuro e pieno di spine. Il busto coperto da una corazza. Era circondata da una miriadi di filamenti. In quel momento avevo capito chi l’aveva creati. La guardai con gli occhi semidischiusi, controllando ogni suo minimo movimento.
     << Che voi possiate essere i benvenuti! >> disse, con tono perfido, leccandosi le labbra.
     Girai la spada, pronto all’attacco. Ero sicuro che il suo atteggiamento non era amichevole, soprattutto dopo aver sentito la prima frase che aveva detto, però ero pronto ad ascoltarla, o ad osservare ogni suo movimento, semmai le fosse sfuggito dov’era nascosta la pietra sacra, o se ce l’aveva lei.
    << Volete giocare con Omega?!>> chiese, allargando sul suo volto un sorriso. << Qui non ho trovato nessun tipo di pasto de-gno di essere assaporato. Sapete >> si interruppe, avvicinandosi alle due gabbie di cristallo, accarezzandolo, << c’ho pro-vato a calmare il mio appetito, ma questi luridi elfi si sono pro-tetti per bene… >> tuonò adirata, fissandoci con severità e con infrenabile desiderio. Per fortuna che lei non capiva che in re-altà quella era una prigionia forzata, anche se noi due ora era-vamo le sue due vittime.
     Improvvisamente     

mercoledì 24 agosto 2011

Elenco Capitoli-Riassunto


CAPITOLO TERZO







Capitolo secondo:
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Capitolo Terzo




   Sentii i piedi a terra. La pelle smossa. 
   Non avevo la stessa sensazione che di solito provavo quando uscivo da casa.   Percepivo come se il mio corpo fosse stato forzato, tirato dall’interno. Anche Ismeria provava lo stesso. La sua smorfia era schifata. Guardarla così mi sorprese. Non avevo mai visto Eresm in questo modo. Ma non potevo paragonarle, non dovevo farlo.  Era come rifugiarsi nell’idea che lei fosse viva, in un’altra creatura.
   Ero stato un debole, non l’avevo protetta abbastanza. L’avevo portata a morte certa, tra le fiamme della terra di Epsotek. Era mia la colpa e di nessun altro. Rimuginai di quanto fui stato sciocco a mettere quella maledetta pietra lì, da Ràal. Se solo non avessi ascoltato quella voce, se solo avessi placato il desiderio di curiosità, sarei stato di sicuro con Eresm, ora. Mai il mio futuro si sarebbe compiuto in questo modo, ne ero certo.
   Senza che me ne accorgessi venni fissato da Isme. Sapeva in cuor suo che pensavo a qualcosa che mi faceva star male e, accantonando i suoi di tormenti, con voce tiepida mi incoraggiò a proseguire, mandando in avanti la mano. Io annuii lievemente, accantonando quei brutali pensieri che avevo nella testa.
   Eravamo in un cubicolo smilzo, tenebroso e tremendamente estraneo a ciò che di consueto ero abituato a vedere.  Di fronte a noi era vigile il buio più totale. Avevo timore. Provavo inquietudine. Una strana sensazione di inadeguatezza.
   Io e lei procedemmo, distanti uno dall’altro, sentendo soltanto l'echeggiare dei rispettivi passi, pesanti e con marcia solenne. Guardai i suoi piedi. Seppur fosse scalza, riuscivo a sentirla, soprattutto il movimento di quell'abito ponderoso.
   Rimisi il volto in avanti e ciò che mi si presentò davanti mi lasciò ammutolito. Sbigottito. Meravigliato.
   Le tenebre si erano impadronite di tutta la città. Una nube violacea con toni blu si muoveva lentamente occupando gran parte del Cielo. Quand'ero a Artenos lo vidi, insieme agli altri, però quella visione sconvolse tutte le mie aspettative. Dei lampi chiassosi tuonavano dentro le mie orecchie, creando luce potente, tanto forte che spesso socchiudevo gli occhi a causa del fastidio che essi mi donavano. Il Sole Ràal, che in quella terra veniva chiamato Mhedhis e possedeva altri toni tra il turchese e l'azzurro, era diventato bianchissimo e faticava a donare luce.

   Le strutture che contenevano, prima della distruzione di Zholown, i cittadini, erano sfere perfette, che ora erano spaccate, anche a causa dei tornado che giravano voracemente, spostandole. Lontanissimo da noi intravidi la statua del loro dio. Non sapevo come ci saremmo arrivati, semmai fossimo riusciti a trovare la pietra.


  Eravamo dentro al tempio della cittadina dell'aria. Il primo pilastro, che ora stava dietro le mie spalle, era divenuto il punto di passaggio, essendo direttamente collegato all'albero Naa.
  Feci un passo in avanti e fui invaso dalla nebbia colorata. Il mio corpo diventò "lento". Non era più regolare, ma vedevo come se fosse rinchiuso in una rete trasparente che procedeva a scatti.
   Isme, che era poco dietro di me, rimase confusa.
   << Non ci posso credere… >> emise lanciandomi uno sguardo angoscioso.
Non potei far altro che annuire. La visuale era utopica. Le sfere fluttuanti, di fronte a noi, e la terra spaccata e piena di lava, sotto, mi facevano salire il rammarico.

   << Cosa dobbiamo fare? >> disse, trattenendosi una ciocca che si scuoteva terribilmente, per colpa del vento che arrivava dall’uragano, a desta, che girava irrefrenabile. Parte del suo vestito mi urtò, come se fosse stata una frusta, scatenando un rumore sordo.
   << Dobbiamo cercare la pietra… >> risposi, in maniera infantile, volendo suggerire la via più veloce.
   << Cosa proponi? Illuminami! >> mugolò,con una nota di sarcasmo, infastidita anche dai tuoni che ci davano il tormento, sbiancandoci ogni volta che facevano luce.
   Rimasi senza parole, andando in avanti, sentendo dietro di me parte del mio corpo rallentato. Quella sensazione mi dava enormemente fastidio.
Osservai giù, trapassando il pavimento grossolano, esaminando la terra cristallina che non era troppo lontana da noi.
   << Credo che la pietra stia lì! >> esclamò con entusiasmo Ismeria, indicando il luogo.
   << Come fai a esserne sicura? >> le chiesi, incerto.
Esaminai la lava, là sotto. Per un breve istante mi salì un brivido.
   << Penso che sia caduta. In fondo le sfere… guarda >> s’interruppe, prendendomi il mento e trascinando il mio viso verso in avanti, <<… girano, non sono stabili. Sono semidistrutte. Sarà per forza caduta! >> strimpellò, cercando di farmi ragionare, inculcandomi il concetto appena esposto. << Io so come muovermi. Ti sei forse dimenticato da dove provengo? >> chiese, con tono deluso.
   Dissentii, levando garbatamente le sue dita dal mio volto. << E semmai la trovassimo, come credi di raggiungere la statua del loro dio? >> domandai, non riuscendo a dire il nome. Era più forte di me, indirettamente e inconsapevolmente provavo astio verso di lui.
   <<
 Siamo elfi. In qualche modo ce la faremo! >> esclamò, convinta della sua forza. Annuii, cercando di auto convincermi delle sue parole.

   << Andiamo! >> mormorò, lanciandosi senza preavviso. Di lei vidi soltanto il riflesso rallentato, che poi sparì, susseguito da un tonfo.
   Mi affacciai, la vidi. Mi guardava dal passo verso l'altro, minuta, a causa della distanza che si era creata tra di noi.
   Mi stavo lanciando anch'io, per seguirla e, come se gli elementi mi volessero smuovere, una sfera urtò il luogo dov'ero posto, dandomi lo scossone che con irruenza mi fece lanciare verso la pavimentazione di cristallo.
   Arrivai con tutto il peso verso il suolo, che scrocchiò intensamente. Pensai che da un momento all'altro esso si sarebbe spaccato inghiottendomi nelle sue viscere.  Sentii nuovamente un tonfo, proveniente dai miei piedi. Il cristallo cedette lievemente. 
    Ismeria mi fissò, lanciandomi un sorriso furbo e smorfioso. Incominciò a camminare sicura, tra le crepe piene di lava che eruttavano nebbia e cattivo odore. Non sapevo immaginare come potesse vivere ad Epsotek, con un tanfo del genere.
    La seguii, esaminando ogni dettaglio del luogo che ci circondava. Niente sarebbe rimasto nel caso. Tutto sarebbe stato controllato minuziosamente, anche a costo di trascorrere un'intera Epoca a Betkholos.
    << Forza...>> mi incoraggiò con voce sicura, che con un cesto della mano mi invitò a proseguire. La vidi di spalle, con il volto di profilo. Sguardo perso e pensieroso. Forse, sotto i suoi occhi, intravidi una lacrima. 
   Senza dire nulla le andai di fianco, camminando passo dopo passo con lei, osservando dettagliatamente tutto quel che mi circondava.
    Rimasi folgorato. Lontano da me c'era Shautoros rinchiuso nel cristallo opaco. Così, come lui, c'erano altri che conoscevo, altri cercatori della mia terra. Anche se non si riuscivano a vedere ad occhio nudo, io li riconobbi. Mi fiondai da lui scavalcando tutto ciò che era d'impaccio e in un attimo lo raggiunsi. Battei più volte su quel cristallo, disperato. Chiamai il nome del mio amico, talmente forte che soltanto un tuono riuscì a fermare il mio grido.   
   Volevo rompere quella maledetta gabbia. Il mio corpo si scosse, insieme a quel fremito. Mi sentii tutti i muscoli ondeggiare.
    << Non ho mai visto nulla di simile! >> emise allucinata Ismeria, corrugando lo sguardo.
    << Sono vivi... ma intrappolati >> dissi, con un filo di voce pieno di delusione. Lei abbassò il volto, come se fosse stata trafitta. << Stai tranquillo, ti salverò... >> emisi, distaccandomi leggermente da lui.
    << Non c'è nessuno dei miei...>> mugolò Isme, mordendosi poi un labbro. Si era risposta da sola. 
    Con aria leggermente arrabbiata si girò, spalancò gli occhi e immediatamente mi trascinò a sé. Indicò qualcosa di incredibile.
   Lievemente lontano c'era una grandissima crepa, che partiva da una impercettibile fessura susseguendosi poi in un lago di lava. I miei occhi tremarono a causa di tanta distruzione. Pareva come se parte di Epsotek fosse esplosa dal centro di Betkholos, disseminando una serie di rocce di varia dimensione da tutte le parti, tanto lontane che arrivavano anche accanto ai miei piedi. Non avevo mani visto tanta lava in vita mia. Era come se la sua ira si fosse imposta interrompente lì, dicendo:  << Io esisto, sono la padrona di questa futile cittadina >>.
   Ismeria, involontariamente, lanciò un sorriso. Il suo volto sembrò più sereno, modificandosi totalmente, e gli occhi viola si illuminarono. Le sopracciglia si  distesero. Parve che in quel momento guardasse il suo primo amore. 
   Le toccai una spalla, per farla rinsavire. Si discostò lievemente, come se fosse stata disturbata. In un solo istante parve lanciarmi guerra. Ricambiai lo sguardo minaccioso, che si modificò in serio, così anche il suo. Ritornò la solita elfa lievemente acida.
    Riportando lo sguardo in avanti, spostandomi con passo lento, la visuale si modificò. Di fronte agli occhi si prostrò di nuovo qualcosa di incredibile, che prima avevo soltanto intravisto. Mi ritrovai in prossimità del foro lavico, un altro passo, e mi sarei fuso con essa.
    Vidi una coppia di elfi, nitidi, disperati, in mezzo a quella massa liquefatta e bollente, scoppiettante e infervorata, caotica e non mansueta, che trattenevano un urlo silenzioso, dalla loro espressione visibilmente straziante. Mi parve udire la loro voce, per un istante, in un rantolo soppiantato dai fulmini e dal suono del vento, che non smetteva di fischiarmi nelle orecchie. 
    Come i miei genitori, loro si cercavano. A mala pena si toccavano. Sembravano spingersi uno verso l'altro, anche grazie al magma che li faceva ondeggiare.

   Mi soffermai prima su di lei, che aveva gli occhi chiusi e sguardo disperato. Sul capo portava una specie di tiara con spuntoni. Sotto al mento un collare che proseguiva coprendo una sola spalla, da dove partiva un mantello davvero insolito, con una serie di spuntoni morbidi e vari. E poi le mani erano protette da guanti di diversi livelli, il superiore corazzato.
   Il busto rotante era nudo, se non fosse stato per il petto coperto da una pettorina ferrosa, con un unico elemento di tessuto trasparente, del quale non capivo l’utilità.
    Le gambe affusolate facevano intravedere una specie di tessuto lunghissimo che proteggevano il dietro, e non il davanti, nascosto da un ghirigoro con tre forme. Dalle ginocchia in giù c’erano degli stivali, simili ai suoi guanti, in parte corazzati, dall’altra allegorici.


   Spostai il mio sguardo su di lui, munito come me di un'armatura, ma non da un elmo. I capelli celesti, mossi e stranamente corti e arruffati, con un lungo ciuffo che intravedevo lievemente. Glabro. Occhi simili ai miei, terribilmente identici.
   Una corazza ermetica, stretta, protettiva, asimmetrica, che delineava in molte parti la forma del suo corpo, accentuando la pancia coperta da un elemento trasparente e lievemente azzurrina. Le gambe erano celate da tessuto drappeggiato, nascosto da placche consequenziali, a tre livelli di un tono argentato e celeste. Delle ginocchiere insolite erano poste al di sotto, emulando una forma strana che mai avevo visto in vita mia, riproposto alle caviglie. Esse riproducevano dei piccoli ciuffi candidi sul suo petto.
    << Cosa sono? >> emise lei, stupita, fissandomi immediatamente, rallentata soltanto dall’effetto che si era impadronito di Betkholos. Non sapevo risponderle. Non sapevo neppure io cosa fossero.


    Arretrai. Alzai lo sguardo al Cielo profondo, mosso, spaventoso. Spostai il viso,  così il corpo. Il mio piede andò ad inciampare su qualcosa di solido, che non mi sembrava per niente roccia. Anche Ismeria l'esaminò, afferrandolo e facendolo scorrere gelosamente tra le sue mani. Lo fece ruotare, con un gesto agile. Lo fissò scrupolosamente.
   <<E' un arco?!>> emise, confusa, trasformando la sua domanda in un esclamazione.
    Io non sapevo cosa fosse un arco. Nella mia città non l'avevamo mai usato. Mi misi a fissarlo, mentre sulla testa sentivo il vento che fischiava dentro le orecchie e, nel frattempo, scuoteva i capelli.
    Aveva una specie di forma curva, semitrasparente, arricchito da mille particolari. Nella zona superiore c'era uno scudo argentato simile al decoro della sua ginocchiera, riproposto identico nella parte centrale. Una corda trasparente era legata nella parte esterna di quella strana arma.

   << E come funziona? >> domandai, curioso. Lei mi guardò, sfrecciandomi un sorriso.
    <<Così >> emise, silenziosamente, facendo entrare un oggetto lungo, con la punta simile all'arco. Vidi il suo braccio tirarsi indietro, i muscoli gonfiarsi. Il volto modificarsi, essendo sotto sforzo. In un attimo scoccò l'arma che mi passò vicino l'orecchio. La vidi ruotare, in modo veloce e letale. Per poco non mi colpì, andando a finire a terra, poco lontano da noi, creando un buco.

    << Sei impazzita? >> urlai, con rabbia. I miei scudi si mossero, ruotando. Erano pronti ad attaccarla, se solo avessi voluto.
    Semplicemente non rispose, ma andò in avanti, facendo un gesto che mi invitava a seguirla. Lo feci, mentre le gocce d'acqua cadevano sulla nostra pelle. Rabbrividii, non conoscendo quella temperatura così fredda.


    Ismeria camminava incurantemente, girando il volto, mentre cercava la pietra tanto agognata. Mi avvicinai a lei, vendendola illuminata da un altro tuono. Oramai mi ero abituato a quel fragore.
   Teneva in mano l’arco, non volendosene separare, ma tra le dita non aveva nessun tipo di freccia. << Come mai mi hai tirato un fendente addosso?>> incalzai, volendo una risposta.
    <<Per farti vedere come funzionava. Non avrai pensato che ti avrei voluto uccidere? Non sono un’assassina, con chi pensi di avere a che fare?>> chiese, adirata. Il suo volto era ferito, mentre parlava.
    Non risposi, rendendomi conto in quell’istante di aver parlato troppo.
    << Non chiedermelo… >> disse, cose se percepisse che volevo farle un'altra domanda, << ...mi sono portata con me l’arco per legittima difesa. Ti ricordi cosa ti ha detto Naa? “
 Non credere che ciò che troverai sarà facile. C’è tutto quel che può essere maligno dell’anima degli dèi, che ti attende”… non penso che scherzasse >>. 

   Senza preavviso una grande sfera si catapultò, come una scheggia, a terra. Strisciò, creando una grande fossa. Era posizionata di lato, spaccato esattamente a metà. Alcune sue parti fluttuavano. Altre erano sciolte dal calore proveniente dal fuoco che gli stava accanto. Una spaccatura si era creata, e la lava stava facendo spazio, prepotentemente. Mi sembrava Ismeria, in quel momento. Forte come lei, con una considerevole testa dura.

  
 << Ismeria, questo è un segno dato da Asmon . Forse lui vuole che andiamo lì dentro a cercare la pietra!>> dissi, preso dall’entusiasmo.
   << Sì, forse hai ragione. Nulla capita per caso. Andiamo, prima che il vento, l’acqua o i fulmini distruggano ciò che è rimasto! >> mugolò, escludendo senza accorgersene il fuoco, guardandomi con estrema attenzione.
   Ero felice che mi desse ragione, che questa volta avesse ascoltato le mie parole. Procedetti, in direzione del Sole bianco e oscurato dal Cielo con tono malvagio.

    Mi trovavo a disagio a camminare lì. Probabilmente Isme si sentiva più a casa sua. Era pensierosa, senza entusiasmo. Sicuramente desiderava che tutto finisse, che le nostre strade si... separassero.
   Una strana tristezza mi prevalse il cuore, solo in quel momento. Non ero disposto a dire di nuovo addio a qualcuno, ma così funzionava a Zholown. Ogni specie provvedeva a se stessa, e disconosceva le altre.

     La guardai camminare, solennemente. Il suo volto era immobile. Il suo corpo si muoveva velocemente, scavalcando con facilità tutte le intemperie che le andavano contro. Né pioggia, né vento, né tempesta sembravano scalfirla, tantomeno il terreno smosso e frastagliato.  
    Dopo poco, mentre il silenzio era interrotto dal chiasso del Cielo che echeggiava suoni strazianti, arrivarono accanto alla sfera.
    Ismeria osservò la scena, con occhi semidischiusi. Incredula, toccò il grande muro scuro che, per merito della sua forma tondeggiante, spariva in alto, anche perché c’erano enormi crepe.
     Senza preavviso si arrampicò, lanciando l'arco in alto. Pareva che volasse. L'oggetto, dopo un istante, entrò perfettamente dove lei aveva deciso di andare. Ancora mi domandavo come l’avrebbe usato, non avendo frecce a disposizione, avendo adoperato l’unica… contro di me.

   In un istante entrò nella fessura, <<Caos… >> urlò, sconcertata, facendo accantonare immediatamente i miei pensieri. Io la seguii e in un attimo arrivai dov’era. Entrai, non avendo più sulla pelle la fastidiosa pioggia che tintinnava tremendamente. Rimasi sbigottito da ciò che vidi: una miriadi di scale intrecciate, che si dislocavano in maniera contorta, creando una figura assurda e asimmetrica.
     Spalancai lievemente il volto, incredulo. Ismeria dissentì, come se in quel momento si sentisse persa.

   << Non scoraggiarti, ce la faremo!>> emisi, andando in avanti, incominciando a salire su una rampa di scale.
   << Io vado lì, è preferibile che ognuno cerchi in posti diversi, così faremo prima!>> mugolò, camminando verso dove aveva deciso di andare. Acconsentii, salendo.

    Sentivo il rumore della mia armatura. Tintinnava. Non ci feci caso, il chiasso era diventato l'ultimo delle mie preoccupazioni. Esaminavo ogni minimo particolare. Ma non c’era modo di trovare quella dannata pietra. Forse, per un istante pensai, era finita nella lava, o nel mare, o dentro l’uragano. Ero lì,a causa di un segno di un messaggio divino. E allora perché non c’era speranza di trovarla? Mi sentivo enormemente preso in giro.
   Improvvisamente una visione mi apparve davanti agli occhi. Alzai lo sguardo e vidi Ismeria sopra la mia testa, camminava, però in posizione rovesciata, come se fosse dall’altra parte di uno specchio. Anche lei mi osservava, stranamente. Era un effetto incredibile. Distesi in braccio, per toccarla, lei fece lo stesso, ma appena le mie dita la sfiorarono, scomparve in un attimo, come se una nube l’avesse inghiottita.

   <<Ismeria!>> esclamai, confuso, sentendomi richiamare da tutt’altra parte. Mi affacciai, guardando sotto. Lei, in realtà, era nella zona sottostante alla mia, messa in modo perpendicolare ed esatta.
    <<Ho trovato qualcosa!>> emise, concitata.
    Io, senza pensarci, saltai dalla rampa, scavalcando tutto con salti, creando tonfi, attento a non cadere. Sotto c’era il grande fiume di magma che era vivo e vorace.
    La raggiunsi e la vidi affaccendarsi. Stava tentando di raccogliere una gemma azzurra, tanto simile a quella che avevo trovato nella mia terra.
    << Bravissima!>> mi congratulai, mettendomi al suo fianco. La pietra era in un punto distante. Una fossa enorme ci allontanava dalla meta. Era una questione di poca distanza. Mi sporsi in avanti, ma fui distratto da un rumore che mi fece rabbrividire. 

   Un suono, un rantolo, una voce, un canto. Non seppi neppure io cosa fosse. Alzai gli occhi in alto, scavalcando con lo sguardo le rampe di scale che si intrecciarono una sull'altra, ma non vidi nulla al di fuori del Cielo. Quella situazione non mi piaceva.
   Con fretta tentai di prendere la piccola pietra. Scivolai in avanti, tenuto da Ismeria, ma improvvisamente la gemma turchese fu agguantata da un qualcosa di veloce, che non riuscii a scorgere. Vidi cadere soltanto un oggetto soffice. La raccolsi con ira, osservandola. Era estremamente simile a ciò che era issato nell'armatura dell'elfo di luce. Morbida, al tatto. Leggera, talmente leggera che mi riscivolò dalle mani, cadendo dondolando via da me, sfrecciando via a causa del vento funesto.

    Un brivido mi percorse la schiena. Un canto mi carpì. Mi girai, osservando una creatura bellissima, esageratamente attraente. Quasi mi parve d'innamorarmene, scacciando via dal cuore Eresm. Camminava, verso di me, in modo seducente. Aveva i capelli lunghi, lineamenti gentili, corpo perfetto ed estremamente seducenti. Mi sentii fremere. Mi mossi, vedendo un gesto che mi invitava ad andarle vicino, volendola raggiungere, toccare anche per un istante.
   <<Caos!>> sentii squittire dalla voce di Ismeria, ma più che altro mi parve un eco, un sogno. Non m'importava nulla di lei, in quell'istante. Non mi importava di nulla, neppure di Zholown. In quel momento quell'elfa sconosciuta, serrata da un abito opaco e casto, era divenuta l'unico mio motivo di vita. 
   Vedendo il mio comportamento Isme s'imbestialì, mi rincorse, ponendosi davanti a me. Scrollò con veemenza le mie spalle, chiamandomi ancora con voce incalzante.

    Come se una bolla scoppiasse, così fu la mia vista. Vidi altro,
una creatura quasi raccapricciante, con delle grandi ali attaccate sulla testa, un corpo pieno di penne e corazzato da artigli letali. E, purtroppo, non era l'unica. Una di loro aveva la pietra. Mi ritrovai invaso da tante, simili a lei, che volavano, con in mano un'alabarda terribilmente pericolosa. Emanavano voci suadenti che mi rimandarono da tutt'altra parte, di nuovo perso nella utopica illusione.

   << Cerca di svegliarti! Caos!... Caos! >> emise, ancora, con tono angoscioso, simile ad un rantolo. Ma nulla, procedetti, trascinandomela dietro. Anche se fosse cascato il mondo, non mi sarei fermato. 
   Spinto da Isme da una parte, attratto dalla sconosciuta dall'altra, riuscii ad arrivare fino alla meta. La toccai, la strinsi, sfiorai la sua pelle. Ascoltai la musica che uscì dalla sua bocca. Quasi le sfiorai le labbra, percependo accanto al mio orecchio un rumore simile a scintille che stavano impazzendo. Pericolo imminente? Non era importante, non volevo muovermi da lì.
    Un fendente mi trapassò, di nuovo. Sentii un brivido. Mi girai con sorpresa. La creatura meravigliosa lanciò un urlo così forte che mi fece indietreggiare violentemente. Essa si toccò la fronte, si trasformò di nuovo, rivelandosi per quello che era, mentre si dimenava cercando di levarsi la freccia che le si era impiantata al centro della testa.
    << Maledetta!>> emise con voce gracchiante e acidula, osservando Ismeria con ira, accasciandosi poi a terra, morente, mentre il sangue creò una piccola chiazza chiara, a terra. Le altre urlarono, e solo in quel momento mi accorsi che non erano le uniche veramente pericolose. 

    Dal Cielo vennero velocemente del mostri enormi. Svolazzarono in maniera rotatoria, trapassando le scale, giungendo a terra, accanto a noi. Erano di numero inferiore degli altri esseri, però il loro corpo poteva tranquillamente trasportare un elfo, essendo più del doppio di lui.
    Gracchiarono, con voce vorace. Ci osservarono, con i loro occhi iniettati di sangue. Mi domandavo perché nella mia cittadina non ci fossero creature simili e soprattutto mi chiedevo cosa fossero disposti a fare. Mi sentivo in difficoltà, ma senza timore estrassi la spada.

   Li fissai, scrutando il loro corpo senza corazza, volto acuminato, zampe possenti e con gli artigli. Pelle in parte ruvida, gialla, spessa negli arti anteriori; vellose e scure in quelle posteriori, ancor più forti e grandi. Sulle spalle avevano qualcosa di davvero simile a ciò che era inserito nella testa delle elfe canterine.
    Esse ci esaminavano, girando agitatamente da tutte le parti, in modo così confusionario che non sapevamo più dove girare la testa anche perché,  con quell’effetto strambo che non c’aveva mai abbandonati, tutto era ancora più confuso.
   Una di loro, ridendo, portò un braccio in avanti. Gli esseri a quattro zampe, insieme a qualche femmina alata, si fiondarono su di noi. Misi in avanti la spada e appena venni attaccato recisi violentemente il volto di un pennuto, che gracchiò acidamente. Ismeria era in difficoltà, non era protetta, e quando vidi che una femmina mostruosa la stava colpendo dietro la schiena, io lanciai uno scudo, che si aprì, ferendola. Morì, accasciandosi a terra, trovandosi con enormi tagli sparsi. Cadde nel magma, poco lontano da lei. La vidi affondare. Lo scudo mi ritornò indietro, mentre mi proteggevo da un altro agguato.
    Ismeria mi lanciò uno sguardo di gratitudine, mentre scansava con veemenza le avversarie, intervallate dai mostri, che sembravano ridere, attendendo un futuro pasto.
    Vidi apparire sulle sue dita, come per magia, una freccia. Allora compresi: esse si formarono soltanto quando erano necessarie. L’inserì nell’arco e lanciò il fendente nella bocca di un'altra creatura, che urlò di dolore. Il suo tumulto vibrò nell’aria, seguito dallo sgomento dei suoi simili.
     Le femmine si arrabbiarono  tuonando in gran coro, come se fossero un’unica voce, esclamazioni simili a un << Maledetta!>> oppure << Tu e il tuo amico la pagherete molto cara! >> e ancora << Schiacciarti sarà un vero piacere! >>. Dopo qualche istante, mentre nel loro volto si spalancò un sorriso, ricominciarono a cantare, rimandandomi in confusione e questa volta non solo me. Ismeria arretrò, girando la testa. I capelli si mossero, tremendamente. Pareva che in quel momento stesse impazzendo. Si tappò le orecchie, piegando il bacino, come se fosse stata presa da un conato. Spalancò la bocca, urlando senza voce. Serrò gli occhi, li strinse, e alzò il volto in alto. Con nessun preavviso, senza che avessi modo di salvarla, scappò, spalancando lo sguardo e si gettò nella lava. Urlai il suo nome, prima che la mia coscienza fosse totalmente posseduta.
    Il magma la risucchiò, vorticando convulsivo. La inghiottì, creando un suono sordo, stretto e prolungato. Un fiotto entrò dentro l'altro, facendo scaturire un mulinello. Nella mente piombò il ricordo di Eresm, che morì soltanto per colpa mia. 
    Le volatili, crudeli ed irresistibili, risero, circondandomi. Avevano tutte con i piedi a terra, le ali ben dispiegate, come se mi volessero intimorire.
    Una di loro spezzò con un solo colpo l’arco, gettandolo dove la Ismeria era scomparsa. 
   Le faville schizzarono, urtando la pelle di alcune nemiche che gracchiarono voracemente, facendo impennare le proprie ali. Alcune piume caddero, svolazzando. Per quanto loro mi volessero ingannare, sapevo come erano fatte. Non vedevo più meravigliose creature, ma veri mostri.
    Mi resi conto che ero rimasto solo, senza amici al mio fianco, senza i miei genitori, senza neppure Isme, che seppur fosse l'opposto della mia amata, mi mancava. Non sentivo neppure la presenza di Ràal. Era come se mi avesse abbandonato.
    Per un breve istante pensai che non ce l'avrei mai fatta, che dopo tutto ero un comune mortale. Un elfo che sarebbe stato solo, in agonia. Senza più forza d'animo mi lasciai controllare da quelle creature, mentre venivo fissato in modo sogghignante da quei quadrupedi, che probabilmente avrebbero voluto assaggiare volentieri il mio corpo. Mossero le ali, alzando le zampe anteriori.

   D’un tratto, dalla lava, vidi un getto schizzare in alto. Fiotti si sparsero, scottando alcune delle volatili, che gracchiarono voracemente.
   Vidi una mano uscire dal magma, le dita creare dei piccoli fori, poi il volto di Ismeria, con un mezzo sorriso appena accennato e velocemente sgusciò fuori, con addosso non più il suo vestito, ma con una corazza possente, munita di scudo e una spada poderosa. La chioma era serrata da un accessorio acuminato, con uno sprazzo di acumini e fiammelle. Le coppe erano con ghirigori e proseguivano, serrando le spalle. Poi aveva delle protezioni sulle braccia e sulle gambe, con dei grandi stivali corazzati. Lo scudo, simile a un vortice, stava sul lato sinistro del suo bacino e la mano destra serrava una grande spada, possente, grande come la mia, che oramai era quasi adagiata a terra. La sua lama era simile a un rombo, con due buchi.
  


  Quella visione mi parve impossibile. Non aveva mai visto delle femmine con un’armatura addosso, eppure…
    Osservò chi aveva intorno, in modo serio. Rise, senza felicità. La sua era soltanto soddisfazione. Le nemiche si girarono, mirando ciò che io stesso fissavo. Rimasero immobili, le ali si abbassarono, toccando le punte pure il suolo polveroso.
    Il corpo di Ismeria parve accendersi, scatenando intorno a sé scintille di fuoco. Tutto era invaso dalle fiamme.  Urlando si schiantò addosso alle nemiche, parando i loro colpi. Io mi “svegliai”, raggiungendola. Un passo sorpassò l’altro. Velocemente arrivai a poca distanza da lei. La esaminai, per un attimo, accigliato.  
    <<Non mi guardare così!>> emise,  << Nella mia terra le donne combattono per conquistarsi i propri elfi!>> esclamò, come se quella cosa fosse ovvia. Mi accorsi, in quel momento, quanto erano differenti le tradizioni tra una terra e l’altra.
   Non mi era concesso distrarmi. Prime di essere attaccato ruotai, tranciando con la lama del mio fendente tutto ciò che mi venne addosso. Con gli occhi cercavo la pietra, che pareva esser scomparsa.  Prima avrei fatto tabula rasa, poi mi sarei concentrata sull’agognata gemma.
   In quel momento, mentre vedevo fluire il sangue denso degli innumerevoli mostri che parevano moltiplicarsi,  Ismeria mi fissò, intanto che si faceva scudo con la sua spada infiammata. Qualcosa le frullava nella testa, ma non mi era dato di sapere cosa.
    Senza preavviso una sfera mi piombò addosso, vicino al petto. E poi un’altra, dietro la schiena, e un’altra ancora. Ne fui circondato. L’elettricità schizzò fino dentro le mie viscere. Tutto tremò. Sentii le scintille invadermi. Per qualche istante pensai che gli occhi mi sarebbero usciti fuori dalle orbite. Gli scudi reagirono, inclinandosi, tanto che per un momento non mi ferirono.
    Ismeria mi venne in soccorso, ma anche lei fu imprigionata da una gabbia elettrica, che dopo qualche istante la fecero cadere a terra.  Parve spegnersi, riportando tutto quello che lei aveva addosso come l’avevo visto nella prima voltaLe sfere ritornarono nelle alabarde, sfrecciando via, pronte ad attaccarci nuovamente.
    Per un attimo barcollai. Riprendendo lucidità la chiamai, ma non uscì nulla dalla mia bocca. La voce pareva intrappolata nella gola e intanto quel fastidioso canto diventava sempre più forte.
    << Maledette… >> rimuginai debolmente, mordendomi un labbro. Quella parola mi echeggiò nella testa, dandomi fastidio. Lentamente stavo capendo i poteri di quelle nemiche, che sogghignavano, accarezzando i quadrupedi. A causa loro tutti i suoni erano diventati intollerabili.
    << Non ti daremo mai la pietra sacra… >> emise una tra le tante, venendo in avanti. L’osservai, dritto negli occhi, e tra le mani intravidi l’oggetto tanto agognato.
    Stavo per precipitarmi da lei, ma intravidi Ismeria che si alzò di nuovo, e quando le sue gambe riuscirono a reggerla, seppur tremasse. Sul suo corpo per poco esanime comparvero solchi sferici, scuri e dolorosi. Le stesse tracce erano presenti anche sulla mia armatura.
     Ringhiai. Mi morsi un labbro. Elucubrai che la cosa migliore da fare, era ucciderla tutte, una per volta. Affrontare direttamente colei che teneva la gemma avrebbe soltanto creato problemi, portando tutte ad attaccarci. Mi gettai sull’intero gruppo. Mentre sferravo un fendente ricevetti da una di loro uno schiaffo ferroso che mi fece contorcere il collo, girare totalmente il volto e vedere Ismeria letteralmente schiacciata da un quadrupede e la spada lontana dalla sua mano, che ancora rotolava su se stessa.
   La creatura la fissava, voracemente. Il suo becco era a poca distanza dal viso. Lei non pareva spaventata, in realtà lo fissava con sfida.
    Con ira trafissi la testa a chi mi stava di fronte, mi precipitai in suo soccorso. Salii con slancio sulla groppa del quadrupede e gli afferrai la testa, con forza la tirai a me. Gli altri incominciarono a svolazzare intorno, gracchiando disperati e intimoriti.
    Le femmine mi agguantarono da dietro, trascinandomi con forza, ma dalla mia pelle uscì un bagliore che le accecò, facendole arretrare e portare un braccio davanti agli occhi. Sapevo che, quando un elfo della luce provava grandi emozioni negative, reagiva così. Usai questo potere per spezzare il collo all’animale, che si accasciò per un attimo su Ismeria. Io scesi, velocemente, e lo tolsi dal suo corpo.
    La tirai a me, prendendole una mano. << Ce la potevo fare da sola >> emise, agguantando la spada.
    << Un semplice grazie è troppo difficile da dire? >> le chiesi, con aria ferita, mentre la luce tendeva a spegnersi. Non rispose, emettendo un grugno.
Le nemiche riaprirono gli occhi, che ancora sembravano fessure.
     << Diamo fine a questa lotta! >> tuonò Ismeria, circondandosi di tantissime fiamme che sembravano più forti di prima. Le rivali arretrarono lievemente.
    << Esatto! >> rispose quella che aveva la pietra, che velocemente se la conficcò sulla fronte. Sembrò irrobustirsi, duplicando la sua massa corporea.
     Le altre risero, compiaciute. Solo in quel momento compresi che quella era il capobranco.
     Intanto, nella lava, fluttuavano gli elfi dell’aria. Molte li osservarono, gioiose. Alcune volarono da loro, facendoli letteralmente immergere con una grande spinta. Udii da loro provenire un lamento, un urlo, una richiesta d'aiuto. Mi sentii impotente.
    << Farete questa fine! >> urlarono in coro, ridendo.
    << Non ne sono convinto… >> dissi serio, lanciando gli scudi talmente forte che le raggiunsero, tranciandole inaspettatamente a metà, lasciando nel loro volto lo sgomento, scivolando tranciate sul pavimento scuro. Essi tornarono immediatamente apposto, sgocciolando sangue trasparente.
     Quella più grande latrò, indicandomi. Tutti mi fissarono nervosamente. <<Figlio di Ràal, non sai con chi ti sei messo contro!>>
    << Illuminaci, mostro!>> esclamò rabbiosa Ismeria, facendo un passo in avanti, pronta a scattare.
     La nemica rise, rise come una matta. << Sono il vostro peggiore incubo!>> squittì, tuonando un urlo così forte che le orecchie mi parvero di scoppiare, così il petto.
    Approfittando della nostra distrazione venimmo attaccati. Parai, come meglio potevo, cercando di rimanere vigile. Ora il mio peggior nemico era diventato il mio stesso udito, che parve aver preso vita, combattendo contro quella voce dentro la mia testa. Cercava di sconfiggerla, ma era più forte di lui. Per un attimo avrei preferito la stessa morte, ma non mi era permesso neppure pensarlo. Mi feci forza.
    Altra luce uscì dalla mia pelle, ma non servì a nulla. L’energia fu assorbita dal capobranco, come se la risucchiasse totalmente. Non avrei mai immaginato che quella gemma potesse dare una forza simile.
     La fissai, trattenendo l’ira che implodeva in me. Avevo la pelle che mi scottava.  
    << Ti distruggerò >> pensai, escludendo totalmente il piano precedente. Mi accorsi che avevo sbagliato, che l’avevo sottovalutata, che dovevo attaccarla subito.
   Io e Isme ci fissammo, annuendo, capendoci telepaticamente. Ci lanciammo immediatamente, con un balzo, contro la nemica scansando e trafiggendo ciò che ci veniva in contro. Un colpo, un fendente, nemiche tranciate, attimi cruenti e subito arrivammo da lei, trovando dietro alle nostre spalle un massacro. Lei iniziò a volare insieme ai pochi rimanenti.
     << Vigliacca! >> esclamammo in coro, salendo la rampa di scale in fretta e furia, tentando di non ascoltare l’urlo che di nuovo squarciò il Cielo, moltiplicandosi con un rantolo di un fulmine, che ci sbiancò ancor di più di quanto non lo fossimo. L’effetto sdoppiato mi fece quasi impazzire, perché per qualche momento non seppi più chi era vera e chi era un riflesso.
    Mi fermai, placando il movimento della mia amica. Mi concentrai e riconobbi il mostro, che venne contro di me. In quel momento mi schiantai addosso a lei, colpendole il petto. Il fendente ferì il cuore. Con sorpresa ella mi fissò. Dopo poco accanto ritrovai la lama di Isme, che ruotò. La nemica cercò di levarci, ma non ci aggrappammo a quel corpo, che si catapultò a terra. Ci fu uno schianto che si prepose dentro di me. Anche le mie ossa tremarono.
     Chiusi gli occhi, poi li riaprii. Non c’era più nessun suo respiro. Pure le altre si afflosciarono, doloranti e moribonde. La loro energia stava pian piano svanendo. Avevamo vinto, dunque.
     Mi alzai, estrassi la spada e scesi. Arrivai vicino il suo volto, che improvvisamente si rianimò, facendoci trasalire. In un attimo presi tra le mani la pietra e Isme, irritata e visibilmente disgustata, le diede il colpo di grazia, ferendola proprio dov’era la gemma. Era finita? Non ancora.
      L'esaminai, facendola ruotare tra le dita. Era blu, di forma simile a quella che avevo trovato, ma con un simbolo diverso inciso sopra, simile a una "B".
     << E ora come faremo ad andare dalla statua del loro dio? >> fece lei, distraendomi, levando con uno scatto la lama da lì e minacciando i quadrupedi con un gesto, che parevano tutto, tranne che aggressivi.
     In quel momento compresi, loro erano “schiavi” di coloro che possedeva quell’oggetto magico. Lo strinsi tra le dita, deciso, quasi a volerlo spezzare.
    Non parlai, ma semplicemente mi fiondai sulla schiena di uno di loro. Venni emulato. Il mio incominciò a volare, come se leggesse il mio desiderio. Le altre rimasero a terra, addormentandosi e lamentandosi. Si sentivano liberi.
    Uscimmo dalla sfera, inoltrandoci nel Cielo nero e nuvoloso, che non smetteva di tuonare. M resi conto di come fosse quasi piacevole quel suono, a confronto di quello starnazzare.
    Le creature, con agilità, sorpassarono i tornado, le case fluttuanti e  spaccate e con estrema velocità giungemmo sopra la sfera con la statua. Scesi, accarezzando la testa dell’animale, che andò via, planando. Vidi di lui soltanto la coda, e poi nulla. Isme, facendo un balzo, mi raggiunse, lasciò libera la creatura che gracchiò, e mi prese le mani, fissando con odio la gemma.
    << Finalmente… >> mugolò, con collera, spegnendo l'energia della sua corazza. 
    << Finalmente >> risposi, come se fosse un eco.
    << Te l'avevo detto che in qualche modo ce l'avremmo fatta... >> disse, velocemente, toccando lievemente il foro vuoto e concavo privo della pietra.
    La osservai, levandole delicatamente la mano, affrettandomi a deporla sotto la statua, del tutto nascosta dall’oscurità. Sentii una forza magnetica agguantarla. Ci fu uno scatto. Si aprì una specie di porta piena di luce celestina. Era ora di procedere.
    In quel momento mi ritornarono in mente le parole dell’albero Naa e, osservando i segni rimasti su di noi, mi chiesi cosa avrebbero dovuto affrontare, quali pericoli. Ma di una cosa ne ero sicuro, non avrei più permesso che un nemico si sarebbe impossessato della gemma.  

Capitolo primo:

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Capitolo quarto:
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