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sabato 16 aprile 2011

CAPITOLO PRIMO

Dal Libro:  Caos e la Ricerca dell'Ordine Perduto


Ideato da Manuela Costanzo
in collaborazione con i componenti del "PROGETTO MILLEMANI" 
(http://www.facebook.com/pages/Progetto-Millemani-Libro-Collettivo/187158851316352 )

Disegni di:
Diego Poggioni
Max&Tiziano Atzas
Manuela Costanzo




disegno di Max&Tiziano Atzas




CAPITOLO PRIMO




   Sento calore, ma nello stesso tempo rabbrividisco dal freddo. Due temperature contrastanti e non controllabili accarezzano la mia pelle candida, ruvida e screpolata, confondendomi.
   Nella terra di Zholown, esattamente nella città dispersa dopo il Mare del Nulla, è divenuto normale trovare certe caratteristiche climatiche.
   Mi trovo in un tunnel roccioso, cuneiforme, arido, che emana odore acido  così forte che mi fa sobbalzare il respiro. Passo dopo passo osservo il mio corpo riflesso nel pavimento di cristallo, cercando di scovare tra le sue crepe il coraggio per proseguire.

  I miei capelli albini sono mossi da una lieve corrente di vento, che impazza qui dentro, e mi danno fastidio, scuotendosi selvaggiamente. L’unica sicurezza la trovo nei miei occhi tremanti e vivi, celesti come il Cielo, un Cielo che non ha più forma e stabilità da tempo.
   Vedo muoversi instancabilmente lava e acqua, sotto quello specchio trasparente e fragile. Si agitano in maniera confusa, turbolenta, irrefrenabile. Incredibile, vero? Un comportamento del genere non è nell’ordine delle cose. Solo qui, in questo momento, pare veramente esserlo.
   Io sono Caos, un elfo di luce, discendente dei raggi del Sole. Ho intrapreso un viaggio carico di impervie difficoltà per raggiungere la meta: stabilizzare l’Equilibrio, ora distrutto, che aveva un tempo il mio mondo.
   Tutto ebbe inizio infiniti istanti fa. Non ricordo neppure io l’Alfa dell’Epilogo, ma è fresca nella mente l’Omega del Prologo.


   La mia città, Artenos, era situata nella parte ovest di Zholown. Aveva certe caratteristiche insolite. A differenza delle altre quattro cittadine, essa possedeva la peculiarità formidabile di essere collegata, di casa in casa, con dei tunnel carichi di colonne bianchissime, luminose, estremamente lucide e con capitello semplice che manifestava la sobrietà tipica della mia polis. Quando le toccavo potevo percepire sulla mano calore immenso, ma anche morbidezza e porosità.
   I corridoi incolonnati non erano dritti, essendo in realtà pieni di curvature, dato che la base della città aveva una forma tondeggiate. Se era vista dall’alto, infatti, si poteva notare che la serie di androni, con tetto dorato, delineavano una forma molto simile alla impronta digitale.
   Artenos era così intricata che, vista dall'esterno, pareva quasi impossibile scrutare la sua interiorità.
   Fontane, statue e giardini – inseriti anche nel centro delle abitazioni – campeggiavano tutto e, pian piano che si andava dentro, si notava un piazzale tondo che produceva un cerchio di luce potentissimo, capace di sprigionare faville incandescenti, grandi pressoché come un pugno. La pavimentazione era fatta con una lastra candida piena di codici, che scorrevano seguendo un movimento a spirale.
    I luoghi che amavo di più erano quelli dove stavano le enormi fontane, sparse qui e là, nelle zone più “aperte”, essendo la distanza tra un corridoio e quello parallelo abbastanza ampia da poter permettere la collocazione di queste strutture.   
   Osservarle era bellissimo perché oltre ad avere nel loro centro, o ai lati, spruzzi e fiotti immensi, esse non emanavano acqua ma luce allo stato liquido, che se veniva toccata produceva sulla pelle una pellicola viscosa e perlacea, che immediatamente spariva, assorbendosi.
    Alcune statue, raffiguranti elfi sereni, erano poco distanti una dall’altra, nei giardini grandi e circoscritti da mura trasparenti. Erano la riproduzione dei nostri Avi, emulati in maniera perfetta, cosicché noi potevamo ricordare da chi venivamo.


   Lì vivevo serenamente le mie giornate, raccogliendo per la divinità Ràal le pietre della salvezza, collocate un po’ lontano dal centro urbanistico. Erano l’emblema in forma solida del nostro elemento. Cristalli di luce brillanti, introvabili, inviolabili e preziosissimi.
   Ogni specie elfica aveva il proprio protettore: Meeres per gli elfi di acqua, Asmon per quelli di aria, Shaemea, la dea, destinata a quelli di fuoco, Imuset per gli elfi di terra e Ràal per noi, padre del Sole Laàr. Loro non avevano consistenza, esistevano in ogni individuo.


   Ero pronto. Stavo nella mia stanza chiara e ordinata. Ci stetti per un attimo prima di andare via, ammirando dentro le mura trasparenti l’effetto rotatorio della mescola di luce, che andava a riflettersi sopra di me, creando una serie di macchie sulla mia epidermide. Mai, nella mia vita, l'avevo vista identica.
   Al centro era posizionato un grande letto candido e rettangolare, nascosto da tende diafane e, di fronte a esso, c’era collocato un grande specchio, dove spesso mi ci riflettevo. Notavo, giorno dopo giorno, sul mio mento crescere un pizzetto perfettamente tagliato, che era lievemente a punta.  
   Mi ritrovai intento nell’infilarmi i guanti carichi di rivestimenti inseriti nel palmo, essendo altresì i tutori più importanti che mi riparavano dal rischio del mio compito, essendo le pietre davvero taglienti e la mia pelle estremamente labile.
   Questo giorno era la fine del ciclo sesto della ventesima Era. Infatti, a ogni conclusione di un ciclo temporale, dovevamo trovare più pietre possibili e inserirle tramite un passaggio lunghissimo, che le faceva viaggiare, senza costringerci per forza ad andare troppo lontano, cioè nel punto centrale del nostro mondo, vicino l’Albero Naa, il diretto interlocutore con gli déi.


   Uscendo da lì mi mossi velocemente e dopo una breve marcia incontrai i miei genitori, che erano poco lontani da me. Loro erano ufficiali controllori. Avevano un incarico importante, quasi vitale. Sarei divenuto come loro al prossimo ciclo temporale, insegnando ai miei figli lo stesso ruolo di cadetto.  

 Li ritrovai indaffarati a controllare
, davanti il tempio Kàmas – situato nel centro di Artenos, affacciato sul muro di luce concentricoche le placente d’aria ed energia fossero messe in ordine e piene. Erano bolle biancastre, nebulose e senza luminescenza, essendo opachissime. Tutto da lì poteva entrare, ma nulla poteva uscire. Ecco perché i bambini non avevano il permesso di avvicinarsi, per evitare che potessero rimanerci intrappolati e morire di stenti. Erano come se fossero delle prigioni magiche ed eterne. Nessuna forza magica era capace a distruggerle. 
   Kàmas era il nostro rifugio. Di forma ottagonale, aveva su ogni lato tantissime colonne semplici, bianche, platinate e d’oro promiscue di lievi chiazze, che riempivano gli angoli, diminuendo nella doppia entrata, munita di due portoni enormi, rettangolari e scuri, con disegni a sbalzo allegorici. Noi entravamo nella parte posteriore, così da poter varcare l’interno e passare nell'atrio, accedente al passaggio che ci permetteva di andare al centro di Artenos. Dentro quell’edificio puro e smilzo c’era situata il primo pilastro del grande corridoio, che arrivava fino a Naa.   

   Lentamente, lasciando Artenos dietro le spalle, mi avviai verso il punto d’arrivo. Lo esaminai, per un attimo, e vidi come fosse inserito tra le dune. Era quello il luogo perfetto per trovare le pietre della salvezza.
   Durante il cammino solitario, essendo uno degli ultimi del mio settore di ricerca, mi misi a guardare attentamente la statua dorata, ocra e polimaterica che rappresentava il nostro protettore. Era almeno venti volte più grande di un comune elfo, posto in maniera eretta, fiera, spavalda e con un viso che pareva fissasse il Cielo, mai chi lo venerava. Sembrava quasi che noi comuni mortali non fossimo fieri del suo sguardo.
   La piattaforma che lo sosteneva era piena di archi scavati nell'interno, senza adorni, che giravano come se si stessero rincorrendo, arrivando su, grazie a diversi strati e piani.   


   Mi mossi, affrettandomi con passo spedito. Si stava facendo davvero tardi. Sentivo il drappeggio del mio capo scuotersi vicino ai miei piedi semiscoperti. Esaminando la marcia notai la pavimentazione arida e screpolata, piena di piccole fosse e crepe, che creavano lieve rumore, quand'è che ci adagiavo il peso sopra. Il mio petto, incalzante di respiri frettolosi, si scontrava con la mia tunica candida, costellata di scudi minuti e adagiati sui muscoli in rilievo.
   Arrivai, vedendo altri miei coetanei intenti a scrutare ogni sasso. Io, dopo aver salutato qualche mio amico, mi misi a cercare accanto alla roccia friabile, cosparsa di piccoli fori, che sprigionavano luminescenza. Lì dentro c’erano le falde acquifere luminose. Era uno spettacolo osservarle. Mi domandavo, quando avevo possibilità di entrarci, se nella terra di Deltes, la città dell’acqua, esistesse qualcosa di simile.
   Varcando l’entrata candida e liscia, dopo qualche decina di passi – mentre si poteva udire il tumulto del liquido lievemente grumoso serpeggiare nelle fessure semitrasparenti – si entrava in uno spiazzo enorme e brillante. Era idilliaco guardarlo. Girando il volto si potevano notare diversi pilastri altissimi creati artificiosamente nella roccia, fungendo da arterie. Come in un corpo, pulsavano instancabili in tutta l’area e ci trasferivano, a noi osservatori, una sensazione d’intermittenza.    
   Il liquido, capace di lanciare raggi intensi, era depositato dentro un bacino così largo che, quando i miei amici andavano nell’altra sponda, se mettevo dinanzi al mio sguardo il pollice potevo nasconderli perfettamente.


   Durante la lunga ricerca non trovai neppure una delle fatidiche pietre, seppur i miei guanti da lì a poco, a causa della breccia affilata, stessero arrivando alla fine del loro incarico, riducendo le mie dita quasi nude.
   << Caos, che cosa stai facendo! >> mi ammonì prontamente una voce musicale.
   << Sto cercando le pietre… >> risposi, seccato, fissando ciò che avevo raccolto: cristalli bianchi e senza valore.
   << Stai raccogliendo soltanto sassi. Dopo tutti questi anni ancora non sei capace di trovare nulla di buono?! >> disse la mia cara amica Eresm, che conoscevo da quando ero un piccolo cadetto.
   La fissai, per un attimo. Le sue candide e morbide mani tastavano delicatamente il suolo, le braccia si mossero lentamente, seguendo un ritmo rotatorio. I polsi, fino ai rispettivi gomiti, erano nascosti da un tessuto candido, serrati e fermati da bracciali lisci e dorati, che si rincorrevano obliqui, inserendosi tra piccole aperture dello sbuffo che arrivava fin sotto al seno creando una “x” davanti al ventre e anche dietro la schiena, fermandosi in maniera corrisposta sopra le spalle, che erano lievemente nascoste con delle plissettature fugaci.
    Il petto era nascosto da delle coppe rigide e sotto di esso c’era posizionato un adorno romboidale, che rappresentava il simbolo del nostro elemento solare. In quel momento, essendo Eresm piegata, parte di esso era nascosto, facendo vedere soltanto trequarti.
    Era inginocchiata, in posizione comoda, facendo notare la nudità delle sue gambe, serrate da nastri stretti che arrivavano fino ai piedi, muniti di piccole scarpe.
    Non mancava dell’ulteriore tessuto, che nascondeva l’inguine e parte del corpo sottostante, molto morbido e ricco, come la larga cinta che serrava la vita.
    Un monile prezioso, che seguiva un ritmo curvo ed a spirale, era posto sull’omero del braccio destro, che vedevo bene, così l’anello, che era inserito nel suo anulare. Esso era magico.
    Se noi maschi eravamo costretti a cercare le pietre sacre proteggendo le mani nei guanti che evitavano di graffiarci, esse usavano la pietra inserita nel piccolo gioiello semplice, facendo fluttuare ciò che trovavano, inserendolo poi nella rientranza creata artificiosamente dalla striscia incrociata, che aveva nell’interno un incantesimo, per non lacerarla.
   << Da che pulpito viene la predica! >> esclamai, rancoroso, accigliandola. Vidi muovere le sue labbra, contorte e desiderose di darmi risposta, che invece si bloccarono, cosicché il suo pensiero si sfogò nella testa.
   Esaminai il suo volto luminoso, estremamente dolce e quasi divino, nascosto da fine sensualità. Le sue labbra lievemente carnose assecondavano il ritmo della sua voce. Gli occhi, ancor più belli del Cielo, erano grandi e sprizzavano, con il semplice gesto, la sua gioia. Riuscivo subito a capire il suo stato d’animo, grazie a questa sua caratteristica incomparabile.
    La sua chioma altissima, munita di nastri, era intrecciata riccamente sulla fronte e alcune ciocche scivolavano soavi, vicino al volto, nascondendo parte delle sue orecchie a punta.

   I brusii intorno a me erano incontrastati. Il giorno stava dando spazio alla notte. Nel Cielo chiaro e quasi violaceo notavo l’anello nebuloso, di un tono rosso smorto, che ci circondava parendo che tenesse, verso Est, su di sé la grande Luna madre, circondata dall’oscurità. Immaginai, per un attimo, che se Ella si fosse spostata anche di poco forse sarebbe caduta.
   << Chissà cosa ci riserverà Ràal. Dopo tutta questa fatica spero di trovare almeno un elfo degno di me! >> disse Erasm, un po’ superbamente, muovendo a fatica le lunghe ciglia, mentre scansava, con un brusco gesto, una gemma fasulla.
   La guardai, senza rispondere, scrutando il suo profilo. Non capivo perché volesse gli altri e non me. Che avevano di speciale? Probabilmente, anzi ne ero sicuro, mi vedeva come un fratello maggiore. Nulla di più.
   Dopo questo ciclo temporale, che a noi corrispondeva al secondo dell’Era Nork, tutti i nostri coetanei potevano chiedere in sposa la propria amata, sempre se fossimo riusciti a vincere il duello che metteva i contendenti uno di fronte all’altro. Chi riusciva a togliere la spada all’avversario, vinceva e, oltre alla sposa, avrebbe avuto in dono il suo anello, quindi la magia.
   Eresm sicuramente ne sarebbe stata colpita di ricevere da me una simile richiesta e immaginavo quanto avrei dovuto combattere per poterla avere.


   Tra le mani, dopo tanta fatica, con stupore trovai una pietra della salvezza, o almeno così a me sembrava. Era d’oro, brillante, convulsiva, ma nello stesso tempo troppo dissimile dalle altre. Aveva uno strano simbolo sopra di Essa e non era frastagliata ma liscia, tondeggiante e piatta.
   << Grande fortuna, Caos! >> esclamò con enfasi Sahutoros, un mio amico, afferrandomi con forza un avambraccio, che fece oscillare lievemente. Il suo volto era beffardo, mentre mi guardava, << Ma… >> emise preoccupato, poco più tardi, affacciandosi dalla mia spalla, facendo avvicinare con la sua voce squillante Kersko, Xenophia, Kalipsos ed Eresm.
   << Non è una pietra della salvezza! Non ho mai visto nulla di simile! >> disse d’un fiato Kersko, spalancando gli occhi che furono prevalsi dall’incredulità. Era più grande di me di un anno – che corrispondeva a trecentosette giorni, dove gli ultime tre erano pieni di Sole accumunato dall’anello rosso, che diveniva più intenso del solito, e non c'erano notti stellate – enormemente intelligente, furbo e spesso sarcastico. La sua bellezza parve morire, in quell’stante, soffocato dallo stupore.
   << No, hai ragione… >> mugolò Xenophia, la più giovane e innocente di tutti, crucciandosi una ciocca bianca che girò numerose volte sul suo dito fino. Si mise accovacciata, osservando timidamente in resto del gruppo.
   << E allora che cos’è? >> chiesi, tenendola ancora raccolta tra le mani, che erano una sopra l’altra, simulando l’interno di un boccale.
   << Non lo so, ma credo che sia qualcosa di sacro… >> rispose con tono incerto Eresm, facendo assentire silenziosamente i nostri amici. Per nostra fortuna gli altri cercatori erano troppo distratti per ascoltarci e per rendersi conto di ciò che era successo.
   << Credo che tu la debba portare immediatamente ad Ametite. Lei saprà che cos’è… >> finì Kalipsos, il più bello e saggio del gruppo, mio coetaneo, facendomi  immediatamente rabbrividire. I nostri sguardi si penetrarono pericolosamente. Lui si riferiva a mia madre.
   << Però… >> emisi, confuso, guardandolo a scatti, esaminando nuovamente la strana pietra.
   << Non starai pensando di tenertela con te?! Sai che non puoi. Non sono cose nostre, è tutto del Cielo, della Terra, dell’Acqua, del Vento e del Fuoco. Non puoi Caos. E’ vietato!… >> mi rimproverò Eresm, trattenendo il tono della voce, che parve scalpitare furiosamente, facendo scatenare le mani, che gesticolarono in modo vorace.  
   << Farò come voi dite >> mugolai infelicemente, mettendo la pietra nella sacca, che era allacciata sulla cinta. Ero davvero avvilito e nello stesso tempo però sicuro che Ràal non se la sarebbe presa a male se mi fossi appropriato di un oggetto del genere. Non aveva nulla di simile con ciò che Lui desiderava.
   Poco prima che il Sole Laàr scomparve dall’orizzonte, portammo tutto quello che avevamo trovato ad Artenos, consegnando le gemme ai nostri genitori o parenti, dentro al tempio Kàmas.
   Quando arrivai a destinazione vidi mia madre vicino al primo pilastro del corridoio candido, intenta, con occhio serio e imperturbabile, a controllare che tutto fosse apposto.
    Annuiva, mordendosi un labbro, girando pacatamente tra le placente, che a ogni suo acconsentimento venivano teletrasportate con la magia verso il condotto che collegava la nostra città all’Albero Naa. Io non l’avevo mai visto, e come me nessuno sapeva come fosse fatto. Di solito tutti erano attenti a viaggiare. Non è che disprezzassimo gli altri elfi, ma non avevamo forti rapporti sociali, forse perché era risaputo che gli déi non erano grandi amici tra di loro, quindi ci inducevano indirettamente a non "amarci".
   Rimasi a guardare il luogo, esaminando i volti imperturbabili di tutti i cittadini di Artenos. All’improvviso sentii dei rumori. Alzai lo sguardo e vidi, nel punto combaciante tra il soffitto e il muro che possedeva una linea scavata, degli elementi granulosi, simili a tantissimi sassi di diverse grandezze, muoversi in maniera sinuosa e scattante. Gli spicchi del tetto, dopo uno scatto, magicamente si aprirono e quello che si presentò fu uno spettacolo senza eguali. Sopra la nostra testa apparve il Cielo blu profondo, rischiarato dalla grande Luna bianca che sembrava amoreggiare ancor di più con l’anello rosso.
   Le placente sussultarono, si mossero da sole, ritmicamente, in un istante.  Vederle  sfrecciare su quel corridoio bianco mi creò incredulità e meraviglia, ma ancor di più mi stupì ammirare la comparsa delle scritte che sbalzarono all’improvviso, aumentando e diminuendo a seconda del posto che la placenta gassosa toccava. Pensai che quello era un modo per emanare le nostre preghiere, scritte e illuminate nelle incisioni antiche.
   Dopo tanta indecisioni, ancora carpito da quella magia, decisi di avvicinarmi a lei, intimorito, volendo in realtà evitare di parlarle.
   Accorgendosi della mia presenza mi osservò per un attimo, non dandomi attenzione, pregandomi con lo sguardo di andare via.
   << Ametite, stai attenta! >> sentii squittire poco più avanti dalla voce astrusa e forte del padre di Kalipsos, molto simile al mio amico, lievemente più grottesco. Non mancò un suo sguardo minaccioso. Fu così potente che sentii come se fossi stato colpito da una lama, in pieno petto. Indietreggiai, intimorito. Per colpa mia, essendo stata distratta, una placenta stava rischiando di cadere a terra, per poco destabilizzando la perfetta sincronizzazione che si era creata. Me ne andai, girando le spalle, sapendo già come mi avrebbe rimproverato più tardi, con mio padre a seguito, che intanto mi accigliava anche lui di sguincio, poco lontano da me.  I suoi capelli erano lunghi, legati, creando un codino. Gli occhi celesti, le sopracciglia lievemente folte. Una corta barba perfettamente tagliata era visibile sulle sue guance e sul corpo aveva un’armatura simile alla mia, anche se maggiormente corazzata.
   Guardando furtivamente i miei amici gli feci capire che non voleva ascoltarmi e loro, silenziosamente, mi dissero che comunque dovevo mettere ciò che non era mio dove era destinato.
   Sentendo subito dopo l’ordine di espulsione dalle nostre sacche, per i maschi, e dalla striscia di tessuto delle femmine, uscirono tutte le pietre. In un istante crearono instancabile rumore, finendo nelle bolle gassose, posizionate davanti a noi. Non toccavano terra, ma erano sospese e immobili. Parevano osservarmi, ogni tanto, quand’è che le strisce di fumo creavano forme simili ad occhi. Semplice immaginazione.
   Fui svelto a far scivolare le poche che trovai e a raccogliere, in un attimo, la pietra agognata, rinfilandola da dove l’avevo presa. Così i miei amici avrebbero creduto che avevo rispettato l’accordo preso poco prima. Io, tra di loro, ero il più veloce.
   Quand’è che ebbi finito, la placenta ancora un po’ vuota si mosse lentamente verso un altro elfo, esattamente davanti Sahutoros, cosicché lui potesse riempirla. Poi andò davanti ai controllori e sfrecciare via, verso Naa. Pregai che Ermes scegliesse me.


  Si fece giorno, non dormii. Stetti tutto il tempo nella mia stanza che non smetteva mai di brillare. Circondai il letto tra le piccole tende chiare e soffici, per crearmi riparo. 
   Mi alzai di buonora, stanco. 
   Era arrivato il giorno della gran festa. Gioia e danze si sarebbero sprigionate nella nostra cittadina. L’Epoca Nimet era iniziata. L’indomani avrei dovuto combattere. 
  Mi ritrovai inspiegabilmente agitato, non tanto per una futura battaglia che avrei di sicuro vinto, ma per quella strana energia che la pietra sacra e misteriosa mi stava irradiando nel corpo, visto che la tenni tra le dita, girandola incessantemente per tutta la notte. Mi diceva che sarei dovuto andare dalla statua del dio Ràal, e lì avrei capito tutto. Tutto cosa? Non riuscivo a comprendere. Probabilmente, la mia , era soltanto suggestione.
   Girai per la stanza, posando addosso la mia tunica migliore. Legai la lunga chioma che arrivava fino alla schiena. Posizionai la cinta sui fianchi, che partiva dal mio petto e finiva sotto l'ombelico. Misi i calzari con stringhe e nascosi la pietra nella sacca. Con l'occasione avrei scoperto cosa volesse dire quel messaggio inconscio e persistente nella mia testa. 
   Andando via da lì, aprii la mia porta in rilievo e l'osservai, quando la vidi chiudere. Raffigurava me, da bambino, insieme ai miei genitori, su un ritratto in rilievo. Ero così sereno, ilare e felice in quel momento. Quello stato d'animo era così lontano da me che, involontariamente, spostai la mano verso il viso glabro di venti anni fa, volendolo riagguantare e renderlo mio.
    << Caos, puoi venire un attimo da me? >> domandò mia madre, che fino ad allora non aveva parlato. Ritirai immediatamente il gesto, mi mossi con passo lento e giunsi nella sala centrale,  adiacente all'entrata. Mi posizionai davanti a lei, serio, esaminandola con fine attenzione.
    << Ti ascolto >> le riferii, trattenendo il più possibile il mio malumore. 
    << Ieri hai rischiato di scindere l' Equilibrio... >> disse di netto, superba, prendendo tra le dita una ciocca di capelli, cosicché lo sbuffo del suo prezioso abito oscillò pericolosamente, distinguendosi dalla gonna, che parve pietrificata come le gambe, irrigidite dalla tensione. 
   << L'Equilibrio! Solo all'Equilibrio tu sei capace di dare attenzione, madre? >> la rimproverai con aria ferita sbattendo il pugno sul tavolo tondeggiante, che aveva la capacità di rimanere sospeso per aria, seppur non avesse sostegni sottostanti. I suoi occhi parvero tremare e uscire per poco dalle orbite, a causa dello stupore fulmineo che le diedi. Arretrò lievemente, attonita, creando nell'ambiente silenzioso un piccolo sussulto che derivava dai suoi tacchi. Si mise le dita davanti alla bocca, osservandomi poi con decisione.
    << Come osi! >> mi ammonì prontamente mio padre, che le stava accanto, aggrottando lo sguardo privo del suo elmo, che da lì a poco si sarebbe messo, anche se il suo scultoreo corpo fosse provvisto dell'armatura più bella mai vista prima d'allora, la stessa che avrei avuto io, da lì a poco. Per un breve istante mi immaginai così, con le spalle seminascoste da una grande corazza che me le avrebbe protette. Le varie placche, adornate da strisce d’oro, si susseguivano sul busto, con un ritmo circolare. L’addome era guarnito dal rombo, che era simile a quello presente vicino alla fronte, sull’elmo prezioso utile per preservare le guance. Il pennacchio era un simbolo collegato all’età. Più un elfo era adulto e più esso era alto e prezioso.
   Le gambe erano protette, senza nessun foro e a arricchirle c'erano dei teli lucidi, simili a quelle presenti sul torace. Parti delle braccia erano scoperte, facendo notare la pelle chiara, poi nascoste da guanti massicci, che facevano intravedere le dita. Questa armatura, utilizzata anche per "combattere" contro i nostri "avversari" in amore, era prettamente allegorica, un elogio ulteriore a Ràal. Serviva prettamente per funzioni celebrative.
   Lo riguardai dall’alto in basso fissando il suo volto, che esaminava il mio. Le sue sopracciglia semifolte si incresparono così profondamente che quasi parvero unirsi.
   << Tranquillo Arkanos… >> lo azzittì dolcemente lei, facendolo ammorbidire lievemente, mentre ancora mi esaminava, rilassandosi. << Io non controllo solo quello che tu reputi più importante, Caos. Ricorda che io sono pur sempre tua madre, ma sai che se l’Equilibrio non ci fosse, noi non ci saremmo. Ora dimmi, cos’è che ieri volevi farmi vedere con cotanta ansia?!…>> emise, portando la mano sottile davanti a sé. Percepiva che io avessi un oggetto, non soltanto un avviso orale, non un qualcosa di immateriale, ma vera e propria sostanza.
   Presi fiato, << Io e i miei amici avevamo trovato un oggetto insolito. L’ho ridato alla Terra, da dove Egli appartiene >> risposi, asciutto, chiudendo istintivamente le mani in un pugno, che tremò lievemente a causa della tensione che mi accolse. Non ero abituato a dire bugie.
   << Hai trovato una pietra della salvezza e non me l’hai consegnata? >> fece lei, sbalordita, ritraendo sconcertata la mano, come se fosse stata prevalsa dal disprezzo, fissando subito dopo lo sposo.
   << Non ho detto che era una pietra della salvezza. Non era nulla di importante, mi sa che tu non mi ascolti con attenzione. Ora vorrei andare a festeggiare con i miei amici, se me lo permettete… >> conclusi, esaminandoli.
   << Ma… se mi hai bloccata… >>
   << Non ha importanza >> stroncai il suo discorso, d’un fiato. E dopo aver detto questo andai via rendendomi conto che sul pilastro portante era comparsa una scritta lieve e luminosissima. Kalipsos mi stava avvisando, tramite il codice del pensiero, che lui stava davanti casa mia, insieme agli altri e mi attendeva, nel frattempo. Misi la mia mano dove lessi il messaggio e riferii che stavo arrivando. Mi spostai in direzione di una porta scavata nelle mura, liscia e compatta, che emetteva in continuazione uno strano sibilo. Entrai nel tunnel e mi sentii trascinato in un attimo verso il basso, colto da un fervore di luce che pareva una colonna, trovandomi subito dopo nel punto d’arrivo. Quando i miei piedi toccarono terra procedetti, sicuro di me.
   << Caos! Pensavamo che fossi morto!… >> emise Kalipsos, circondato da Kersko Sahutoros, andando a parare giustappunto nel rimprovero dei miei genitori che, anche se tardò ad arrivare, non fu leggero.
   << Quasi… >> dissi, prendendogli una spalla.
   Ci guardammo e senza parlare incominciammo a marciare verso il tempio Kàmas. Dopo una corsa collettiva, fatta di giochi e un pizzico di rivalità, appena decelerai il passo vidi un raduno di mie coetanee, dentro il cerchio di luce, danzare a ritmo della musica che proveniva da uno strumento ondulato, morbido e pieno di corde, che venivano pizzicate lentamente.
    << Andiamo >> emisi, trapassando il portone e andando con velocità verso il passaggio, osservando di nuovo il tetto chiuso. Il quel momento mi sentii purificato.
   In un attimo, quando uscii, vidi Eresm bella più che mai, che girava contenta, seguendo il ritmo con le altre. La prima danza era solo femminile.
   << Per voi se chiedo a Xenophia di ballare con me accetterà? >> balenò timidamente Sahutoros, che era innamorato perso di lei da sempre, che ovviamente non lo sapeva.
   << Provaci, ma stai attento a Kymeròs… >> esordì Kersko, accigliandolo. Si riferiva a colui che Xenophia preferiva. Come con me e Eresm, il nostro amico per lei era come un fratello. Almeno Kersko aveva successo con la sua Mherimetes.
   Fu proprio lui ad aprire le danze in coppia, facendoci d’inerzia avanzare verso le elfe che ci attendevano.
   Io andai verso Xenophia, dandole la mano, non per fare un dispetto al mio amico ma perché, dopo una danza, il cavaliere poteva decidere se consegnare la sua dama a un altro, e così ebbi idea di anticiparlo, essendo lui timido. Kymeròs era con un'altra fanciulla, del tutto indifferente al fascino di Xeny. Così noi la chiamavamo, avvolte.
   << Oh Caos, che sorpresa! >> mentì, avvilita in realtà dal fatto che io non fossi colui che desiderava.
   << Ciao Xeny. Infelice di vedermi? >> le chiesi, giocoso, facendola girare lentamente nel posto, seguendo il ritmo della musica. Il tessuto del suo vestito mi investì quasi a pieno.
   << Ma che dici! >> squittì, sorridendo, trattenendo una strana smorfia.
   << Soltanto la verità >> dissi tra me e me, ricambiando il gesto e non parlando più.
   Ella roteò, si mosse, ritmò davanti a me, fin quando la soave melodia cessò ed io la consegnai al mio amico, che fremeva nell’averla. I nostri occhi si osservarono per un attimo, facendoci ridere vistosamente.
   Lasciando le sue mani, mi accinsi ad andare velocemente verso Eresm, che era stata appena lasciata da Kalipsos. Noi amici avevamo un accordo comune, fortunatamente. Dopo qualche istante lui andò a danzare con Asmelìa, sua sorella. La timida elfa che aveva un familiare ultraprotettivo. Era troppo piccola per me, anche se io sapevo che lei era perdutamente innamorata del sottoscritto. Lo seppi a causa di un logorroico e incessante battibecco che feci con il mio amico. Diceva che l’avevo illusa e la facevo soffrire, vedendomi con Eresm. Ma non capiva il motivo fondamentale: oltre per il fatto che tra noi due c’era una differenza pari a metà di un ciclo temporale – che valeva più o meno undici anni –, non l’amavo e quindi non potevo concedermi a lei.

   Kersko, nel centro della mischia, stava con la sua amata e nessuno sembrava volerlo separare da quella unione intensa di sguardi e silenzioso amore.

   Presi la mano della mia amica, che mi osservò carinamente. Il cuore mi impazzì, seppur sapessi che la sua era soltanto una cortesia.
   Asmelìa mi fissò per un piccolo istante, girando poi il volto, con fare tradito.
  Intanto che il ritmo un po’ più movimentato ci faceva muovere, una voce femminile, estranea da quella delle mie amicizie, ma riconoscibile come quella che aveva tormentato la mia notte, mi avvisò di andare da Ràal, immediatamente.
   << Eresm, ti va di venire con me? >> chiesi, quasi cingendola, avendo davanti al mio petto la sua schiena, lei di profilo, che mi teneva le mani con le braccia incrociate.
   << E dove? >> domandò, curiosa, esaminandomi con estrema attenzione.
   << Da Ràal >> emisi, d’un fiato, sentendo la voce prima intrappolata nella trachea, poi eruttata nella bocca, trascinandosi così troppo velocemente che quasi mi sentii colpito in pieno petto.
   << E come mai? >>  insistette, guardandomi incerta e lievemente turbata, penetrando pericolosamente il suo sguardo nei miei occhi, sentendoli perforati e incandescenti, come ogni volta che mi fissava così.
   << Seguimi e vedrai >> emisi, d’un fiato, sicuro.
   Lei annuì lievemente e quando lasciai la stretta, immischiandomi nella folla la trascinai tenendo nel pugno le sue dita, riuscendo ad andare fuori. La sua mano tremò nella mia.
   Trapassammo Kàman e tutta la grande cittadina che, per la prima volta, vidi svuotata e, quando arrivammo davanti alla statua, la osservai di nuovo.
   << Perché mi hai portata qui? >> replicò, distaccandosi dalla mia presa.
   Non le risposi. Sfilai semplicemente la gemma piatta, mettendola sul mio palmo, per fargliela guardare.
   << Ti avevo detto… >> emise, sconcertata. Il suo volto, da leggermente divertito e burlo, divenne una maschera d’incomprensione e profonda delusione.
   << Lo so cosa mi hai detto. Ma so anche dove Ella vuole stare! >> commentai, convinto.
   << Ma cosa dici?! >> borbottò,  tesissima.
   << Ella mi parla. Desidera stare qui >> continuai, sperando che non mi avrebbe preso per pazzo, ma << Ho ascoltato anche troppo! Ti avevamo detto di parlarne ad Ametite. Di fare in modo di ridarlo al nostro dio. Tu hai fatto di testa tua!… >> mi rimproverò, acida, girando il viso, per non guardarmi. Incrociò le braccia, mettendole conserte. Il suo naso sembrò toccare la congiunzione tra il Cielo e l’anello rosso.
   << Lo sto ridando al nostro dio. Non vedi dove siamo?>> le chiesi, facendola ragionare. Seppe, in quel momento, che avevo ragione e la sua espressione cambiò, seppure lievemente, cosicché poi mi fissò, decisa.
   Togliendo la mia attenzione dai suoi lobi azzurri e profondissimi, mi accorsi che sul muro del piedistallo c’era una stranissima forma concava, che emanava dal basso verso l’alto linee dorate.
   Andai davanti ad essa. La esaminai in ogni suo minimo particolare.
   << Sei sicuro di quello che fai? >> mi chiese, incerta, indietreggiando.
   << Sì >> dissi, in un sussulto.
   Misi la mia mano in avanti, feci ruotare l’oggetto. Lo posizionai in concomitanza con l’insenatura concava. Sentii uno scatto.
   << NOOO! >> udii dissentire poco lontano da me. Era mia madre, che si era accasciata a terra presa dalla disperazione.
   In quel preciso istante la terra si spodestò dalla sua naturale postazione. Il suono dell’aria diventò urlo.
   Il suolo si crepò ancora di più, creando profondissime insenature. Vidi Eresm andare all’indietro, cadendo in una spaccatura che si creò in un attimo. Accorsi in suo aiuto, immediatamente. La trovai avvinghiata accanitamente sulla roccia. Afferrai prontamente la sua mano.
   << Ti prego, non mi lasciare… >> emise, aggrappandosi angosciosamente a me, mentre teneva la presa nella roccia scura. Sotto di lei vidi serpeggiare del fumo e del rosso vivo, esattamente del magma incandescente, che si mescolava furibondo. Cosa ci faceva un elemento della terra di Epsotek, qui?
   << Mai… >> dissi agitato, allontanando i miei pensieri.
   L’afferrai con più forza. La tirai su, lentamente, ma il nostro contatto corporeo cessò. Scivolò via, agitando il suo corpo. L’ultima cosa che vidi di lei, mentre cadeva giù, fu il movimento rotatorio delle braccia, gli occhi di ghiaccio e i capelli slegarsi, facendo notare dei ricci che ondeggiavano velocemente.
   Un urlo. Un tonfo. Silenzio.
  La chiamai più volte, tirando dal mio petto tutta l’aria che ero in grado di mandare fuori, rimanendo quasi senza voce. Aprii la mano e vidi il suo anello nel mio palmo. Lo strinsi, addolorato.
   Alzai il volto, prevalso dalle lacrime. L’avevo persa per sempre.
   Girai lo sguardo. Non vidi più mia madre. Strillai. Dal mio urlo si susseguì un altro cataclisma. Una serie di acumini di cristallo grandissimi sprezzarono fuori dalle insenature. I miei genitori erano rinchiusi all’interno, pietrificati. Vennero inghiottiti.
   Mi mossi con passo fulmineo, attento a non farmi rinchiudere da quella gabbia luminosa, andai verso di loro.
   Erano posizionati lontani, cercandosi. Immobili, statici, eppure erano vivi. Vedevo i loro petti muoversi, così gli occhi.
   Ne rimasi sconvolto. Toccai quella superficie gelida, che mi fece rabbrividire totalmente, sommandosi al tremito della paura.
   Mi accorsi che non ero in grado di salvarli.  
   Abbassando lo sguardo vidi che a terra c’era riverso l’elmo di mio padre. Lo raccolsi, mettendomelo sulla mia testa.
   La sua spada era vicino ai miei piedi. Lui, capendo che probabilmente stava succedendo una catastrofe, fece almeno in modo che io potessi raccoglierla. Era la stessa che gli servì a sconfiggere i rivali, i medesimi che cercarono di vincerlo, per poter sposare mia madre. La raccolsi, angosciato.


  Fui investito pienamente dalle faville di luce, che mi graffiarono la pelle, dandomi meno dolore di quello che io provavo per la perdita di Eresm.
  Mi girai, osservando ciò che aveva causato quell’infame danno e in quel momento volli morire. La statua era collassata a terra, creando una buca profonda. In quel momento Ràal mi osservò, per la prima volta. Non mi interessava quello sguardo intenso di superiorità. Volevo che tutto fosse soltanto un orribile incubo.
    Andai oltre. Vidi Artenos,  che era spaccata in mille pezzi. Tutti i corridoi si erano divisi, andando verso il centro che anticamente era il nostro posto sacro.
   Il Cielo, anzi i Cieli, erano confusi, a diversi livelli, immischiati. Come era il suolo era lì sopra, trattenendo le grandezze. Da una parte vidi una terra spaccata a più strati, dall’altra nulla.


   Uno scoppio di fiamme, come una bolla potente, mi fece quasi cadere. Epsotek forse era stata annientata.
   Quand’è che mi rigirai di nuovo vidi lontanissimo da me, alcune colonne d’acqua si alzarono, mentre giocavano con dei turbini di vento spaventosi. Tutto si era confuso.
   Esaminai il corridoio che portava all’albero Naa, era in parte distrutto. Forse Naa, se era sopravvissuto, sapeva dirmi che cos’era successo.
   Prima di andare da Lui volevo computare che qualcuno, tra i miei amici, fosse vivo. Non volevo rimanere solo. Non ero in grado di esserlo, avevo bisogno di loro.
   Corsi, più veloce del vento che aveva stranamente circondato la mia terra.  
   In un attimo, sorpassando ciò che era rimasto, cioè distruzione allo stato puro, arrivai nel luogo dove avevo abbandonato i miei amici. Grandissimi muri di cristallo li avevano rinchiusi, annullando la pavimentazione e il muro di luce.
   Non trovai Xeny, Sahutoros e Kalipsos, ma vidi tra tanti Kersko e Mherimetes, che a mala pena si trattenevano per mano, con volto angosciato e preoccupato.
   Scorsi Asmelìa. Almeno la mia piccola amica si era salvata, anche se aveva il volto visibilmente spaventato, intenta a cercare qualcuno. O me o Kalipsos. Optai per la seconda opzione.
   E poi, stranamente intravidi altri elfi di diverse etnie, colori e pelli, coperti totalmente da un effetto estremamente opaco, tanto che non riuscii ad esaminarli, ma ero sicuro che loro fossero i cittadini delle altre terre. Alcuni quasi trasparenti, altri con toni bluastri, diversi verdi chiari con chioma scura, ma nessuno degli elfi di fuoco era presente. Sapevo che avevano i capelli cremisi, e non c'era nessun tono rosso tra quella folla impaurita.

   Le situazioni erano inverse. I poli corrotti. Era tutto un miscuglio. Ebbi paura.
   Stravolto da tutto ciò che avevo appena visto, mi mossi con delicatezza, pronto a iniziare il viaggio, da solo, nella speranza di trovare la soluzione e perlomeno qualcuno.






CAPITOLO SECONDO:
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