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giovedì 19 gennaio 2012

CAPITOLO QUARTO



Capitolo quarto.



    Chiusi gli occhi. In un'interminabile istante giungemmo a Gamilok. L'unica cosa certa era che stavamo dentro al tempio. Dì la fuori, non sapevamo nulla; né di cosa avremmo trovato né di cosa avremmo affrontato. Serrai i pugni, osservando per un attimo il volto serio di Ismeria. Sapevo che lei pensava la stessa cosa. Si guardò addosso, toccandosi l'addome con la mano libera dalla stretta della spada.
    << Siamo scampati a un grande pericolo, Caos... >> mugolò, a bassa voce, fissandomi immediatamente dopo, accecandomi quasi con i suoi occhi viola e luminosi.
    Non sapevo che dire, perché in cuor mio sapevo tutto era appena iniziato, che forse non saremmo arrivati alla fine. Che Zholown sarebbe rimasta così, caotica.
     Senza che me ne accorgessi, spinto da una forza interna, le sorrisi lievemente e le sfiorai la testa, cercando di darle conforto. Non si discostò scontrosa dal mio gesto, ma rimase ferma, accigliandomi lievemente.
    Dopo qualche istante mi accorsi che l'ambiente era salubre, pieno di colonnati con intarsi floreali che inneggiavano l'ambiente della cittadina. I tanti colori mi fecero socchiudere le palpebre, soprattutto a causa del reverbero proveniente dai vetri sparsi sul tetto del luogo.
     Non emanando neppure più un fiato, di comune accordo iniziammo a procedere, per cercare la terza pietra mancante. Appoggiai le mani sulle ante della grande porta, spinsi e rimasi accecato. Vidi buio, poi, appena riuscii a spalancare gli occhi, facendo scudo con una mano, riuscii a vedere ciò che avevo intorno, non con stupore, ma con fare certosino. Oramai non mi sarei stupito più di nulla, dopo quello che avevo visto e affrontato.
    La luminosità del Cielo si arrestò, dopo poco. Passo dopo passo, camminando tenendo in mano l'elsa, esaminai il luogo. Gamilok era semidistrutta, devastata e stroncata. Ismeria mi stava accanto, fissando la parte opposta alla mia. C'era una specie di viale, scosceso e nascosto da piante grandi e intricate. Parevano emulare gli alberi, poco distanti. La loro corteccia era nascosta da una lieve patina di cenere. Ma ciò che mi catturò di più furono le varie abitazioni diverse da tutto quello che avevo visto. No labirinti, non sfere, ma strutture che si elevavano, per quanto possibile, nella selva. Tra i rami riuscivo a intravedere dei grandi muri pieni di colori, mischiati con allacciamenti argentati e scuri, che disegnavano motivi imprecisi, dato che erano quasi fusi. Il peso di quelle strutture, collassate a terra, avevano spostato gli alberi e molte radici erano fuori dalla terra grigia e sporca.
    L’unico rumore che sentivo era il movimento dell’acqua, chissà dove, e questo non ci dava molta tranquillità. Non mi fidavo di nulla, così Ismeria.
    << Imuset >> emise senza fiato, stanca e afflitta. Si riferiva alla statua del dio, che stava a tantissima distanza da noi, in una zona prospiciente, su una collina rialzata. Dal tono che lei aveva usato, pareva quasi che lo conoscesse.
    << Isme… >> la chiamai, confuso, aggrottando le sopracciglia. Lei rispose allo stesso modo, indugiando con lo sguardo. Il silenzio intorno a noi diventò tagliante. Portò davanti a se stessa la spada. La fece luccicare con l’effetto verdognolo e brillante del Cielo. Soltanto in quel momento mi resi conto che non c’era il Sole: Seikat.
   Incominciavamo a sentire la stanchezza. Già per il fatto che non avevo dormito la notte precedente, sapere che avrei dovuto combattere ancora contro l’ignoto mi faceva sentire maggior peso sulle spalle. Invisibile, ma immenso. Però non potevo arrendermi, non potevo lasciarmi abbandonare così.
   La mia immobilità portò ad Ismeria a venirmi accanto. Mi osservò, appoggiando una mano sulla spalla.
     <<Caos, stai bene? >> domandò, con tono agitato.
    << Sì, non preoccuparti… >> mentii, mordendomi lievemente un labbro. Sapevo che non ero capace di mentire, ma parve che con lei non funzionò. Infatti il suo sguardo ferito mi colpì dritto dentro il petto, facendomi ancor più male di quelle nemiche che usarono di tutto per poterci annientare.
     << Ci conviene muoverci… >> farfugliò, frettolosamente, portandosi avanti a me.
     Annuii, seguendola.
    << Credo che forse sarebbe meglio separarci, così faremo prima. >> dissi, procedendo lentamente.
    << Separarci?! >> rispose, acida, fissandomi intensamente. << Sei un folle irresponsabile! >>
    Il suo tono arguito mi lasciò attonito.
    Improvvisamente una spinta, proveniente dal suolo, l’aveva fatta fiondare verso di me. Così bruscamente che quasi rimbalzò. L’afferrai prontamente. La sorressi, cingendole le braccia.
     << Cosa pensi di fare?!>> mi chiese con tono accusatorio, scansandosi da me. Si divincolò, fissandomi atrocemente. Arretrò, con passo lento.
     Rimanemmo in un tagliente silenzio. Non mi andava di controbattere con lei. Volevo usare tutte le mie forze in quello che sicuramente ci attendeva, forse dietro l’angolo.
                Con passo lento, deciso e quasi solenne, apparentemente involontario mosso forse dal mio subconscio o dall'inerzia, mi mossi lentamente nel bosco.
    Ogni passo, sul suolo fangoso, strideva insieme al suono dei piccoli frammenti di vetro, sparsi qui e là.  Essi stridevano spinosi sotto i miei piedi con suoni lunghi e quasi taglienti. Digrignai i denti, d’istinto, cercando di esorcizzare quello strano rumore.
    Entrando lentamente nel bosco, tranciai ciò che mi era d’intralcio con dei fendenti. La fuliggine sparsa sulle cortecce mi dava fastidio. Spesso si depositava su di noi, opacizzando la nostra armatura. Anche lei pareva molto infastidita, oserei dire addirittura schizzinosa.
    Intanto sentivo scuotere gli scudi, che al minimo contatto con le piante, si muovevano selvaggiamente. Questo portò a Ismeria a fissarli, con curiosità. Lei quel potere già l’aveva visto, per poco non ci stava rimettendo le braccia, eppure li osservò come se fosse la prima volta che posava lo sguardo su di loro. Probabilmente in vita sua non aveva mai visto una cosa del genere. Mi incuriosiva il suo modo di pensare, il suo modo di vedere le cose. Eravamo così diversi, eppure così uguali alle persone che noi amavamo. Questo mi metteva a disagio, non tanto per la somiglianza, ma per il rapporto che si era creato tra di noi. Non la riconoscevo osservando i suoi occhi viola e capelli rossi, e probabilmente lei non riconosceva Leonos guardando i miei lobi celesti e capelli bianchi.  Continuai a farmi strada, tergiversando tra me e me.
     << Stai attento! >> esclamò l’elfa, scaraventando via i miei pensieri, spingendomi indietro facendo pressione sul mio petto. La fissai allucinato, non riuscendo a capire a cos’era dovuta quella frase così alta. Poi abbassai lo sguardo. Una specie di tela si era andata ad impattare sui piedi, imprigionandomeli.
     Mi abbassai, con un unico gesto, andando a toccare con curiosità quei strani fili collosi, friabili ed elastici.
     << Cosa pensi che sia? >> mi chiese, accovacciandosi accanto a me.
    << Presumo che non prometta niente di buono…  >> mugolai, istintivamente, provocando in Isme un sospiro soffocato. Percepivo in lei tensione, confermata dal ruota mento della sua spada, che strinse ancora di più accanto a lei. Era pronta a combattere.
     << Dobbiamo trovare subito la pietra, prima che…. >> disse, in maniera frettolosa, non riuscendo a finire la frase. Si alzò, portandosi in avanti, catturata da una strana luminescenza. Io la seguii, pronto al contrattacco. Anch’io, come lei, rimasi sgomentato su ciò che vidi. 




    Specchiati dalla luminescenza del Cielo, trovai gli elfi di Gamilok rinchiusi nel cristallo. Oramai c’ero abituato, sapevo che anche loro erano stati segregati in quella prigione diafana, ma ciò che catturò la nostra attenzione fu altro:il terrore nei loro volti. Osservai per un attimo i loro bei abiti, soprattutto la femmina con una specie di armatura fatta di piante e metallo. Le piante adornavano la sua fronte, le spalle, il seno e le gambe, serrate dal metallo scuro, simile alla terra, lavorato in maniera elaborato. L’elfo aveva un elmo, prezioso e appuntito, il petto ignudo e una specie di tunica al ventre, stretto da una cinta preziosa che sembrava un gioiello. Stivali ai piedi. Lui era di spalle, con le gambe lievemente flette. Ma seppur sembrassero vestiti per uno sposalizio, parevano fuggire da qualcosa. Soprattutto m’incuriosirono le strutture vicine a loro, con dei strani volti, impassibili e terrificanti. Poi, sparsa da tutte le parti, quei fili che poco prima mi avevano interrotto il cammino.
     << E’ strano… >> disse con voce atonica Ismeria, fissandoli con curiosità.
      Non le risposi, annuendo debolmente, cercando con lo sguardo alcuni dei miei.
     Ci fu un suono sordo. Un fruscio. Un movimento brusco. Gli strani visi spalancarono la bocca, spaventati, spalancando gli occhi.
     Mi girai in direzione del pericolo e serrai la spada, affiancandomi a Ismeria che si era nuovamente accesa. 
    << Carne fresca >> sentii in un sibilo impercettibile.    
    Indietreggiai con disgusto, parando con il mio corpo Ismeria che osservò la nemica con ira. Le sue fiamme mi riscaldarono la pelle, quasi mi bruciarono, per quanto erano forti.
     Era un mostro con orbite diverse, tra le quali alcune erano sopra la fronte. Aveva sembianze elfiche, ma con un corpo ripugnante a più zampe che partiva dal bacino. Scuro e pieno di spine. Il busto coperto da una corazza. Era circondata da una miriadi di filamenti. In quel momento avevo capito chi l’aveva creati. La guardai con gli occhi semidischiusi, controllando ogni suo minimo movimento.
     << Che voi possiate essere i benvenuti! >> disse, con tono perfido, leccandosi le labbra.
     Girai la spada, pronto all’attacco. Ero sicuro che il suo atteggiamento non era amichevole, soprattutto dopo aver sentito la prima frase che aveva detto, però ero pronto ad ascoltarla, o ad osservare ogni suo movimento, semmai le fosse sfuggito dov’era nascosta la pietra sacra, o se ce l’aveva lei.
    << Volete giocare con Omega?!>> chiese, allargando sul suo volto un sorriso. << Qui non ho trovato nessun tipo di pasto de-gno di essere assaporato. Sapete >> si interruppe, avvicinandosi alle due gabbie di cristallo, accarezzandolo, << c’ho pro-vato a calmare il mio appetito, ma questi luridi elfi si sono pro-tetti per bene… >> tuonò adirata, fissandoci con severità e con infrenabile desiderio. Per fortuna che lei non capiva che in re-altà quella era una prigionia forzata, anche se noi due ora era-vamo le sue due vittime.
     Improvvisamente     

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